D'accordo, avrei seguito il suo copione. Doveva solo calmarsi un po' e poi mi avrebbe raccontato tutto spontaneamente. Almeno così speravo.

«A casa tua?» domandai.

Annuì, senza sollevare la testa dalle mani. Misi in moto e mi diressi verso Carré Saint-Louis. Quando arrivammo sotto casa, non aveva ancora aperto bocca. Respirava in modo più controllato ma le mani tremavano ancora e continuava a intrecciarle e a scioglierle in una strana danza di terrore.

Parcheggiai l'auto e spensi il motore, già in ansia per quello che sarebbe successo di lì a poco. Le ero stata vicina durante catastrofi di ogni genere: problemi di salute, conflitti famigliali e universitari, crisi mistiche, carenze di autostima e affanni di cuore. Ne uscivo sempre svuotata. E all'incontro successivo la ritrovavo immancabilmente allegra e imperturbabile, le sue disgrazie dimenticate. Non volevo mostrarmi poco comprensiva, ma ero già passata di lì troppe volte: la gravidanza che era solo un ritardo, il portafoglio rubato che invece era sotto il cuscino del divano... Nondimeno l'intensità della sua reazione mi preoccupava. Quella sera avrei avuto molto più bisogno di un po' di solitudine, invece sembrava proprio che non potessi lasciarla sola.

«Perché non vieni a dormire da me?»

Non rispose. Poco più in là, su una panchina, un uomo si sistemò un fagotto sotto la testa preparandosi a una nottata all'addiaccio.

Il silenzio si protrasse così a lungo che pensai non mi avesse sentita. Stavo per ripetere l'offerta quando, girandomi, mi accorsi che aveva smesso di tormentarsi le mani e stava fissando nella mia direzione, immobile, la schiena rigida e il busto leggermente piegato in avanti, staccato dal sedile. Con una mano stretta a pugno si premeva le labbra mentre l'altra giaceva abbandonata in grembo. Un tremolio quasi impercettibile le increspava le palpebre inferiori, gli occhi socchiusi. Sembrava immersa in oscure considerazioni, in calcoli misteriosi. Quell'improvviso cambiamento di umore mi innervosì.

«Penserai che sono pazza.» Era calmissima, la voce bassa e modulata.

«Più che altro sono confusa.» Evitai di dirle ciò che pensavo veramente.

«Capisco. È un modo gentile di esprimersi.»

Lo disse con una risata di autocommiserazione, scuotendo leggermente la testa. I riccioli ondeggiarono.

«Immagino di aver dato fuori di matto mentre ero là dentro.»

Aspettai che proseguisse. Qualcuno sbatté la portiera di un'auto. La voce fonda e malinconica di un sax aleggiava sul parco, quella lamentosa di un'ambulanza strideva in lontananza. Estate in città.

Nonostante il buio, l'ennesimo cambiamento di rotta di Gabby non mi sfuggì. Era come se fosse stata già sul punto di imboccare la strada che la portava da me, ma all'ultimo momento avesse sterzato allontanandosi. Lasciò correre lo sguardo oltre le mie spalle e ancora una volta chiuse le comunicazioni. Stava di nuovo ragionando, valutando tra sé e sé, indecisa sul nuovo atteggiamento da tenere.

«Adesso sto bene», disse infine, raccogliendo tracolla e cartella e cercando la maniglia della portiera. «Ti sono molto grata per essermi venuta a prendere.»

Dunque optava per l'evasività.

«Aspetta un momento!» esplosi allora. «Adesso mi dici che cosa sta succedendo! Non più tardi di un'ora fa, al telefono, blateravi di qualcuno che voleva ucciderti. Poi ti vedo schizzare fuori dal ristorante e attraversare la strada come se avessi Jack lo Squartatore alle calcagna. Fai fatica a respirare, ti tremano le mani come se avessi preso la scossa e pensi di potertela cavare con un "Grazie per il disturbo"? Così, senza nessuna spiegazione?»

Non ero mai stata così furibonda con lei. Era riuscita a farmi alzare la voce e adesso ansimavo, mentre la tempia sinistra cominciava a pulsarmi.

L'intensità del mio sfogo la inchiodò al sedile. Aveva gli occhi tondi ed enormi, come quelli di un daino abbagliato dai fari.

Per qualche secondo rimase immobile, una sagoma rigida sullo sfondo del cielo estivo. Poi fu come se una valvola si aprisse lasciando uscire di colpo tutta la pressione. Dimenticò la maniglia, posò la cartella e si accasciò contro lo schienale. Per la terza volta nel giro di pochi minuti si chiuse in se stessa a riflettere. Forse per decidere da che parte iniziare. Forse per cercare una via di scampo. Io aspettavo.

Alla fine tirò un grande sospiro e raddrizzò leggermente le spalle. Non appena attaccò le sue intenzioni mi furono chiare. Mi avrebbe raccontato qualcosa, ma non tutto. Stava scegliendo le parole con cura, cercando di aprirsi un varco attraverso la palude emotiva nella quale annaspava. Mi appoggiai alla portiera stringendomi le spalle fra le mani.

«Ultimamente lavoro con... diciamo con della gente strana.»

Mi parve un eufemismo, ma non la interruppi.

«No, no, lo so che suona scontato. Non mi riferisco alla normale gente di strada, quella me la so gestire.»

Si stava già perdendo.

«Se conosci i giocatori, parli il loro linguaggio e impari le regole, da queste parti puoi stare tranquilla. Come in qualsiasi altro posto, del resto. Devi solo rispettare gli usi e i costumi locali, e non pestare i piedi a nessuno. È semplice: basta non sconfinare nel territorio altrui, stare al gioco e non parlare con la polizia. Orari a parte, lavorare qui non è difficile. E poi le ragazze ormai mi conoscono e sanno che non rappresento una minaccia.»

Si interruppe. A scanso di equivoci, dopo un po' decisi di sollecitarla.

«Qualcuno ti sta minacciando?»

Per Gabby l'etica professionale era sacra e sospettavo già che stesse tentando di coprire un informatore.

«Le ragazze? No, no, loro sono a posto. Non mi hanno mai dato problemi. In un certo senso credo che addirittura amino la mia compagnia. Come puoi immaginare, non ho difficoltà a mettermi al loro livello.»

Fantastico. Ero riuscita a capire quale non era il problema. Provai a insistere ancora un po'.

«Ma come fai a non essere scambiata per una di loro?»

«Oh, non ci provo neanche. Anzi, cerco il più possibile di confondermi. Altrimenti fallirei completamente nel mio scopo. Le ragazze sanno che non voglio fregarle, quindi... come dire... accettano la situazione.»

Evitai la domanda più ovvia.

«Se un cliente cerca di avvicinarmi gli dico che in quel momento non sto lavorando. In genere quasi tutti se ne vanno senza fare storie.»

Fece un'altra pausa, riprendendo le sue elucubrazioni. Intuii che stesse valutando cosa raccontarmi, cosa tenere per sé e cosa invece riservare per un'altra eventuale chiacchierata. Giocherellava nervosamente con una nappina della portadocumenti. Nella piazza un cane abbaiò. Ormai ero sicura che stesse proteggendo qualcuno, o qualcosa, ma questa volta non avrei insistito.

«Quasi tutti», continuò, «eccetto questo qui.»

Silenzio.

«Chi è?»

Silenzio.

«Non so, ma mi fa venire la pelle d'oca. Non è proprio un cliente abituale, diciamo solo che gli piace frequentare le prostitute. Non credo che le ragazze gli diano troppo peso, però è uno che sa un sacco di cose sulla vita di strada e siccome era disponibile a scambiare due chiacchiere ho deciso di intervistarlo.»

Silenzio.

«Di recente ha cominciato a seguirmi. All'inizio non me n'ero neanche accorta, poi però ho iniziato a incontrarlo in troppi posti. La sera, quando rientro, me lo ritrovo in metropolitana o qui, in piazza. Una volta l'ho visto a Concordia, fuori dalla biblioteca dove ho l'ufficio. Oppure me lo scopro improvvisamente alle spalle, che cammina nella mia direzione. La settimana scorsa l'ho incontrato sul Saint-Laurent. Volevo convincermi che erano solo fantasie, così l'ho messo alla prova. Io rallentavo, e lui anche. Acceleravo, e lui faceva lo stesso. Ho cercato di spiazzarlo entrando in una pasticceria, ma quando sono uscita era sul marciapiede opposto e faceva finta di guardare le vetrine.»

«Sei sicura che si tratti sempre dello stesso uomo?»

«Assolutamente.»

Seguì un lungo e pesante silenzio. Aspettai che concludesse.

«Ma c'è ancora una cosa.»

Si guardò le mani. Erano di nuovo saldamente intrecciate.

«Ultimamente mi ha fatto dei discorsi molto strani, perciò ho cominciato a evitarlo. Ma stasera me lo sono ritrovato al ristorante. Sembrava che mi avesse seguito con un radar. Ha riattaccato con la solita solfa, mi faceva un sacco di domande morbose.»

Per un istante risprofondò nei suoi pensieri. Poi, come avesse trovato la risposta che cercava da tempo, si voltò verso di me e con la voce lievemente venata di sorpresa disse:

«Sono i suoi occhi, Tempe. Ha degli occhi così inquietanti! Neri, duri, sembrano quelli di una vipera. Il bianco è velato di rosa e iniettato di sangue. Non so se ha qualche brutta malattia, se è solo sempre ubriaco o che altro, ma non ho mai visto occhi così. Ti viene voglia di strisciare da qualche parte per nasconderti. Insomma, ero terrorizzata, Tempe! Devo aver ripensato alla nostra ultima conversazione, a quel maniaco su cui state investigando, e il cervello mi è andato in tilt».

Non sapevo cosa dire. Il buio mi impediva di scorgere la sua espressione, ma il suo corpo parlava il linguaggio della paura. Se ne stava dritta e rigida, con la borsa premuta sul petto, come per proteggersi.

«Che altro sai di lui?»

«Non molto.»

«E le ragazze cosa ne pensano?»

«Lo ignorano.»

«Le ha mai minacciate?»

«No. Non direttamente.»

«È mai stato violento, ha mai perso il controllo?»

«No.»

«Si droga?»

«Non lo so.»

«Sai chi è o dove vive?»

«No. Ci sono cose che non si chiedono mai. È una regola non scritta, da queste parti, una specie di tacito accordo.»

Adesso eravamo in due a valutare la situazione, e quell'ennesimo silenzio fu particolarmente lungo. Osservai un ciclista che pedalava sul marciapiede in tutta tranquillità. Entrando e uscendo dal cono di luce dei lampioni, il suo casco sembrava lampeggiare. Attraversò il mio campo visivo fino a scomparire lentamente nella notte, una lucciola che segnalava il suo passaggio: acceso, spento, acceso, spento.

Riflettevo sui racconti di Gabby e mi chiedevo se la colpa non fosse mia. Ero io che avevo alimentato le sue paure parlandole delle mie, oppure aveva effettivamente incontrato uno psicopatico? Stava ingigantendo una serie di innocue coincidenze o era realmente in pericolo? Dovevo lasciare che le acque si calmassero? Dovevo fare qualcosa? Dovevo avvertire la polizia? Il solito vecchio circolo vizioso.

Per un po', ciascuna immersa nei propri pensieri, restammo ad ascoltare i rumori del parco e ad annusare i profumi della dolce serata estiva. Quell'attimo di tranquillità bastò a rilassarci. Alla fine Gabby scosse la testa, lasciò scivolare la cartella sulle gambe e si riappoggiò al sedile. I suoi lineamenti restarono nascosti nell'oscurità, ma il cambiamento di espressione era quasi palpabile. Riprese a parlare con voce più ferma.

«Lo so che sto esagerando. Sarà senz'altro uno di quei tipi strani ma innocui. Magari mi voleva solo spaventare e io gli ho dato corda, gli ho permesso di farlo, di entrarmi nella testa e di terrorizzarmi.»

«Sì, Gabby, ma mi sembra che questi tipi strani, come li chiami tu, non siano proprio una novità per te.»

«È vero, quasi tutti i miei informatori non sono esattamente degli stinchi di santo.» Fece una risatina priva di allegria.

«Allora perché pensi che questo potrebbe essere diverso?»

Rifletté, tormentandosi l'unghia del pollice con i denti.

«Be', non so come spiegarti, ma esiste un confine sottile che separa i semplici rompiballe dai personaggi veramente pericolosi. È un confine difficile da definire, ma quando lo superi lo capisci subito. Forse il fatto di frequentare certi posti ti sviluppa una specie d'istinto. Quando una ragazza si sente minacciata da un potenziale cliente, non ci va e basta. Ciascuna ha i suoi campanelli d'allarme personali, e tutti indicano quel confine che ti dicevo. Una volta sono gli occhi, un'altra qualche strana richiesta. Hélène, per esempio, non va mai con quelli che portano stivali da cowboy.»

Ennesima pausa di riflessione.

«Credo di essermi lasciata influenzare troppo da tutti quei racconti su serial killer e maniaci sessuali.»

Ancora qualche secondo di introspezione. Cercai di lanciare un'occhiata furtiva all'orologio.

«Questo tizio sta solo cercando di scioccarmi.»

Silenzio. Stava provando a tranquillizzarsi da sola.

«Che stronzo.»

Attimo dopo attimo la sua irritazione cresceva.

«Cristo, Tempe, non ho nessuna intenzione di permettergli di eccitarsi raccontandomi nefandezze e mostrandomi le sue foto di merda. La prossima volta lo mando a farsi fottere.»

Si voltò e appoggiò una mano sulla mia.

«Mi spiace da morire di averti coinvolta. Sono una vera idiota! Mi perdonerai?»

La fissai in silenzio. Ancora una volta la sua conversione emotiva mi coglieva di sorpresa. Come poteva nel giro di mezz'ora passare dal terrore, all'introspezione, alla rabbia e infine al dispiacere? Ma era troppo tardi per cercare di capire, e mi sentivo sfinita.

«Gabby, adesso è tardi. Ne riparliamo domani. Ovviamente non ce l'ho con te, anzi sono solo contenta che tu stia bene. Prima dicevo sul serio, quando ti ho proposto di venire da me. Sai che sei sempre la benvenuta.»

Mi abbracciò. «Grazie, ma ora sto meglio. Ti chiamo. Promesso.»

La guardai salire la scala accompagnata dagli ondeggiamenti del suo solito gonnellone. Un attimo dopo era già scomparsa dietro la porta violetta e lo spazio che ci separava era tornato vuoto e tranquillo. Rimasi sola, immersa nel buio e in una delicata fragranza di sandalo. Intorno a me regnava la calma assoluta, eppure una fitta di paura mi strinse il cuore. Una manciata di secondi, e anche quella si dissolse.

Mentre guidavo verso casa fui assalita da un turbinio di pensieri. Gabby stava montando un altro dei suoi melodrammi o era davvero in pericolo? Mi stava nascondendo qualcosa? Quell'uomo poteva essere pericoloso? Non si trattava magari solo di una fissazione indotta dai miei racconti? Era il caso di avvisare la polizia?

Sicuramente non dovevo farmi travolgere dall'ansia e dalla preoccupazione per Gabby. A casa mi preparai un bagno caldo con qualche goccia di oli essenziali. Era un rituale della mia infanzia, ma anche un autentico toccasana nei momenti di maggior tensione o di esaurimento. Misi un CD di Chris Rea e, con buona pace dei vicini, mi immersi nella vasca ad ascoltare la musica. Dopo il bagno provai a comporre il numero di Katy, ma come al solito trovai la segreteria. Divisi un po' di latte e biscotti con Birdie, che in verità preferiva solo il latte, lasciai le stoviglie nel lavandino e mi infilai a letto.

Il bagno aveva funzionato solo in parte. Ero ancora inquieta e non riuscivo a prendere sonno. Mi rigiravo nel letto guardando le ombre sul soffitto e lottando contro l'impulso di chiamare Pete. Nei momenti di difficoltà avevo ancora bisogno di lui, desideravo ancora la sua forza, e per questo mi detestavo. Ma era una cattiva abitudine che mi ero ripromessa di perdere.

Alla fine il sonno ebbe la meglio, liberandomi da Gabby, Pete, Katy e da tutti gli omicidi che avevo in testa. Bene. Solo così potevo avviarmi verso una nuova giornata.

 

8

 

Il mattino seguente, venerdì, dormii fino alle nove e un quarto. In genere mi alzo presto ma quel giorno era il 24 giugno, festa di San Giovanni, La Fête Nationale du Québec, e così mi ero lasciata piacevolmente impigrire. I negozi erano quasi tutti chiusi e non avrei neanche trovato la Gazette davanti alla porta. Decisi quindi di prepararmi il caffè e di scendere all'edicola più vicina per comprare un altro giornale.

Era una giornata tersa e luminosa, sembrava di vedere il mondo attraverso uno schermo a matrice attiva. Oggetti e ombre risaltavano nei minimi dettagli: mattoni e legno, metalli e intonaci, erba e fiori affermavano ciascuno la propria diversa posizione nell'iride. Il cielo era abbacinante e non tollerava la minima intrusione da parte delle nuvole; mi ricordava il colore delle uova di pettirosso sulle immaginette della mia infanzia, lo stesso azzurro sfacciato. Di certo anche San Giovanni avrebbe gradito.

L'aria mattutina era tiepida e leggera, ideale per diffondere il profumo emanato dalle petunie nelle cassette sui davanzali. Nel corso della settima la temperatura era aumentata in modo graduale ma costante, ogni giorno qualche grado in più del precedente. Per la festa nazionale si prevedevano 32 gradi Celsius, che una rapida conversione trasformò in circa 90 gradi Fahrenheit. Montréal si trova su un'isola e l'anello d'acqua che la circonda, formato dal San Lorenzo, assicura alla città un'umidità costante. Fantastico! Sarebbe stata una giornata calda e umida, proprio come nel North Carolina. Da buona americana del sud, adoro questo clima.

Al posto dell'inglese Gazette comprai Le Journal de Montréal, sedicente «primo quotidiano in lingua francese d'America», ma non particolarmente ligio nel rispetto delle festività nazionali. Camminando verso casa diedi un'occhiata alla prima pagina. Il titolo a caratteri cubitali azzurri strillava: BONNE FÊTE QUÉBEC!

Pensai alla sfilata e ai concerti in programma al Parc Maisonneuve, al sudore e ai fiumi di birra, e alla questione politica che divideva la popolazione del Québec. Con le elezioni già fissate per l'autunno gli animi erano piuttosto agitati, soprattutto fra coloro che volevano la separazione e si auguravano che finalmente fosse l'anno buono. Magliette e manifesti annunciavano già: L'an prochain mon pays!, l'anno prossimo sarà il mio paese. Speravo proprio che quel giorno non venisse funestato dalla violenza.

Arrivata a casa mi preparai un caffè e una scodella di müsli e aprii il giornale sul tavolo della sala da pranzo. Io sono un'autentica "drogata dell'informazione". Se per qualche giorno mi capita di non leggere il giornale non posso assolutamente rinunciare alla dose quotidiana di notizie televisive delle undici e, quando sono in viaggio, mi sintonizzo sulla CNN ancora prima di disfare le valigie. L'astinenza da parola scritta, comunque, non può mai protrarsi troppo a lungo. Durante la settimana, assorbita dal ritmo frenetico del lavoro in obitorio e dall'insegnamento, mi lascio blandire dalle voci familiari del Morning Edition e di All Things Considered, già sapendo che durante il weekend mi rimetterò in pari con la carta stampata.

Non potendo bere, odiando il fumo e, quanto al sesso, non attraversando certo uno dei miei periodi migliori, il sabato mattina mi abbandonavo a vere e proprie orge giornalistiche e per ore sguazzavo nel mare di notizie, anche in quelle più insignificanti. Non che sui giornali si leggano sempre chissà quali novità. Anzi, direi che di novità non ce ne sono quasi mai. Le notizie sono fondamentalmente sempre le stesse. Terremoti. Colpi di stato. Guerre commerciali. Rapimenti. Il mio solo scopo è sapere a chi tocca un certo giorno.

Le Journal pubblicava articoli brevi e molte fotografie. Conoscendo il rituale, Birdie si era già issato sulla sedia vicino a me. Non avevo ancora capito se era interessato alla mia compagnia o se sperava nei resti del mùsli. Inarcò la schiena e poi si accoccolò, ritirando le quattro zampe sotto di sé e puntandomi addosso i suoi fanali gialli, come fosse in cerca di una risposta a chissà quale profondo mistero felino. Mentre leggevo, sentivo il suo sguardo puntarmi una guancia.

La trovai in seconda pagina, fra la storia di un prete strangolato e un articolo sulla Coppa del mondo di calcio:

 

GIOVANE ASSASSINATA E MUTILATA

Ieri pomeriggio una donna di ventiquattro anni è stata assassinata e selvaggiamente sfigurata nella sua casa, nella zona est della città. La vittima, di nome Margaret Adkins, era casalinga e madre di un bambino di sei anni. Intorno alle dieci del mattino la signora Adkins era ancora viva e ha parlato al telefono con il marito. Il suo corpo, barbaramente mutilato, è stato scoperto dalla sorella intorno a mezzogiorno.

Secondo la CUM non esistono segni di effrazione e non è chiaro come l'aggressore sia riuscito a penetrare in casa. L'autopsia è stata eseguita al Laboratoire de Médecine Légale dal dottor Pierre LaManche. La dottoressa Brennan, un'antropologa forense americana esperta di traumi allo scheletro, sta esaminando le ossa della vittima per scoprire eventuali segni di coltellate...

 

L'articolo proseguiva con la ricostruzione degli ultimi ipotetici spostamenti della vittima, un breve profilo della sua vita e uno straziante resoconto delle reazioni dei parenti. Per concludersi con la promessa che la polizia avrebbe fatto tutto il possibile per individuare l'assassino.

Il pezzo era accompagnato da diverse foto che illustravano il dramma e i relativi personaggi. Nella prima si vedevano l'appartamento e le scale, la polizia, gli inservienti dell'obitorio e la barella con il sacco mortuario già sigillato. La curiosità dei vicini, affollati sul marciapiede e trattenuti solo dal nastro di demarcazione della scena del delitto, vi era stata immortalata in un bianco e nero particolarmente sgranato. Fra gli attori all'interno del nastro riconobbi Claudel, il braccio destro sollevato come il direttore di una banda scolastica, mentre il primo piano di Margaret Adkins risaltava in un ingrandimento circolare, una versione un po' sfocata ma più felice del viso che avevo visto sul tavolo operatorio.

Una seconda fotografia mostrava una donna anziana con una crocchia di capelli bianchi e un bambino in pantaloncini e maglietta; un uomo con la barba e gli occhiali li cingeva tenendo loro un braccio intorno alle spalle, in un atteggiamento protettivo. Tutti e tre guardavano dalla pagina sgomenti e disorientati, in un'espressione purtroppo assai comune nei parenti delle vittime di crimini così brutali. La didascalia li identificava come la madre, il figlio e il compagno della vittima.

La terza immagine mi provocò un misto di delusione e fastidio. Ritraeva me nel corso di un'esumazione e me la ricordavo benissimo: era una foto d'archivio scattata nel 1992 e spesso utilizzata dai giornali. Come sempre venivo definita «... une anthropologiste américaine».

«Merda!»

Birdie agitò la coda e mi guardò con disapprovazione. Pazienza. Il proposito di bandire quell'omicidio dai miei pensieri per l'intero weekend non era durato a lungo. Avrei dovuto immaginare che la notizia sarebbe comparsa sulla stampa del giorno. Buttai giù il caffè ormai freddo e provai a telefonare a Gabby. Nessuna risposta. Le ragioni della sua assenza potevano essere mille, ma quel silenzio contribuì a innervosirmi.

Andai in camera da letto a prepararmi per la lezione di tai-chi. In genere il corso si teneva il martedì sera, ma poiché quel giorno nessuno lavorava avevamo fissato un incontro straordinario. Fino a poco prima non ero ancora sicura che avrei partecipato, ma quell'articolo e l'assenza di Gabby avevano deciso al posto mio. Almeno per un'ora o due avrei fatto riposare il cervello.

 

Purtroppo mi illudevo di nuovo. Quei novanta minuti di «fate fluttuare mani come nuvole», «accarezzate uccellini» e «come ago su fondo di mare», non servirono affatto a regalarmi un umore festivo. Anzi, ero così distratta che per l'intera lezione continuai a muovermi fuori tempo e alla fine tornai a casa più tesa di prima.

In macchina accesi la radio, determinata a indulgere solo nei pensieri frivoli e a scacciare quelli più lugubri. Dovevo riuscire a salvare il mio weekend.

«... è stata assassinata ieri verso mezzogiorno. La signora Adkins doveva incontrare la sorella ma non si è mai presentata all'appuntamento. Il corpo è stato rinvenuto in una casa di Desjardins. La polizia non ha riscontrato segni di effrazione e sospetta che la Adkins conoscesse il suo aggressore.»

Sapevo bene che avrei dovuto cambiare stazione. Invece mi lasciai risucchiare da quella voce, che scavò nella massa dei miei pensieri fino a riportare in superficie gli stress e le frustrazioni, riuscendo così a distruggere ogni residua possibilità di un buon fine settimana.

«... i risultati dell'autopsia non sono stati ancora resi noti. La polizia sta setacciando la zona est di Montréal e interroga chiunque abbia conosciuto la vittima. Salgono così a ventisei gli omicidi commessi dall'inizio dell'anno nella giurisdizione della CUM. La polizia invita quanti possono fornire delle informazioni a contattare la Squadra omicidi al numero: 555-2052.»

Senza rendermene conto invertii il senso di marcia e mi diressi verso il laboratorio, mani strette intorno al volante e piedi premuti sui pedali. In una ventina di minuti ero a destinazione, determinata a fare qualcosa. Che cosa esattamente non lo sapevo.

Il palazzo SQ era tranquillo e popolato solo da pochi sfortunati. Nell'atrio le guardie mi lanciarono un'occhiata sospettosa ma non dissero niente. Forse non apprezzavano la mia coda di cavallo e la tenuta sportiva, o forse era una generica ombrosità dovuta al turno festivo. Comunque fosse, non mi importava molto.

Le due ali dell'LML e dell'LSJ erano completamente deserte. Uffici e laboratori sembravano godersi un po' di riposo prima di affrontare le conseguenze di quel lungo e caldo weekend. Il mio ufficio era come l'avevo lasciato, penne e pennarelli ancora sparpagliati in terra e sulla scrivania. Mentre li raccoglievo, lo sguardo mi cadde sulla massa di fogli che ingombrava il mio piano di lavoro: referti mai completati, lucidi non catalogati, l'eterno progetto sulle suture mascellari... I miei teschi modello mi guardavano dalle orbite vuote e inespressive.

Ancora non sapevo bene perché mi trovavo lì e quali fossero le mie intenzioni. Mi sentivo solo tesa e scombussolata. Ripensai alla dottoressa Lentz, che mi aveva aiutata a prendere atto della mia dipendenza dall'alcool e ad affrontare il crescente senso di estraniazione nei confronti di Pete. Con molto tatto, ma con altrettanta fermezza, le sue parole avevano scalfito la crosta che copriva le mie emozioni. «Tempe», mi avrebbe detto in quel momento, «è proprio sicura di dover tenere tutto sotto controllo? Non c'è nessun altro di cui possa fidarsi?»

Forse aveva ragione. Forse stavo solo cercando di sfuggire al senso di colpa che mi dilaniava perché non riuscivo a venire a capo del problema. O forse volevo semplicemente evadere dall'inattività e dalla sensazione di inadeguatezza che la accompagnava. Mi dissi che le indagini sugli omicidi in realtà non erano di mia competenza, che spettavano agli investigatori e che il mio lavoro consisteva solo nel fornire un contributo tecnico preciso ed esauriente. E mi rimproverai di essere lì solo per mancanza di prospettive migliori. Ma non servì a niente.

Nel tempo necessario a rimettere in ordine le penne riconobbi la fondatezza delle mie argomentazioni, senza tuttavia riuscire a ignorare la sensazione che mi rodeva e continuava a chiedermi di agire. Fra tutti quei casi esisteva un nesso sottile ma fondamentale, anche se per il momento ancora mi sfuggiva, e io dovevo assolutamente fare qualcosa.

Dall'archivio dove conservavo i casi più vecchi, presi un raccoglitore, quindi ne recuperai un altro dalla pila di quelli ancora aperti e li appoggiai accanto al dossier Adkins. Tre cartelline gialle. Tre donne strappate ai loro cari e massacrate dalla ferocia di uno psicopatico. Trottier. Gagnon. Adkins. Le vittime abitavano a chilometri di distanza l'una dall'altra e avevano età, esperienze e caratteristiche fisiche molto diverse, eppure restavo dell'idea che fossero state seviziate dalla stessa mano. Claudel sapeva vedere solo le differenze. Spettava a me trovare il nesso che l'avrebbe convinto delle analogie.

Strappai un foglio di carta a righe e impostai una tabella suddivisa nelle categorie che mi parevano più significative: età, razza, colore e lunghezza dei capelli, colore degli occhi, altezza, peso, ultimo abbigliamento, stato civile, lingua, gruppo etnico/religioso, luogo/tipo di residenza, occupazione, luogo di lavoro, causa del decesso, data e ora del decesso, trattamento postmortem, luogo del ritrovamento.

Iniziai da Chantale Trottier, ma subito mi resi conto che i file in mio possesso non mi avrebbero fornito tutte le informazioni necessarie. Per ottenere un quadro completo avrei dovuto consultare i rapporti di polizia e le fotografie delle scene dei delitti. Guardai l'orologio: le due meno un quarto. Chantale Trottier era un caso dell'SQ, perciò decisi di scendere al primo piano. Dubitavo che gli uffici della Omicidi fossero in pieno fermento, anzi, probabilmente era la giornata giusta per quel genere di richiesta.

Infatti avevo ragione. Trovai la grande sala semivuota e la colonia di scrivanie di metallo grigio praticamente disabitata. In un angolo in fondo tre uomini formavano un misero capannello. Due di essi sedevano a scrivanie adiacenti e si guardavano attraverso pile di fascicoli e straripanti vaschette per la corrispondenza.

Un uomo alto e dinoccolato, con le guance scavate e i capelli brizzolati lucidi come peltro, si teneva in bilico sulle gambe posteriori della sedia, i piedi sollevati e le caviglie accavallate. Era Andrew Ryan. Parlava in francese con l'accento duro e piatto degli anglofoni, gesticolando con una biro in mano. La sua giacca penzolava dallo schienale della sedia, le maniche vuote che dondolavano al ritmo dei colpi affondati con la penna. Mi ricordava i vigili del fuoco in caserma, rilassati ma pronti a scattare alla prima chiamata.

Dalla scrivania di fronte un collega osservava Ryan, la testa inclinata come un canarino che studia una faccia da dietro le sbarre della gabbia. Era basso e muscoloso, anche se il suo fisico rivelava i primi cedimenti della mezza età. Sfoggiava un'abbronzatura uniforme, da lampada, e una chioma di capelli neri dal taglio e dall'acconciatura impeccabili. Sembrava un aspirante attore pronto per un provino fotografico. Avevo il sospetto che anche i baffi fossero freschi di barbiere. Una targa di legno sulla scrivania lo identificava come Jean Bertrand.

Il terzo agente stava appollaiato sul bordo della scrivania di Bertrand e ascoltava lo scambio di battute fra i due ispezionandosi le nappe dei mocassini italiani. Nel vederlo l'umore mi precipitò alla velocità della luce.

«... hai presente una capra che caca brace?»

Risero in coro con quel suono di gola che gli uomini sembrano condividere quando si godono una battuta a spese di una donna. Claudel consultò l'orologio.

Stai diventando paranoica, Brennan, mi dissi. Forza, datti un contegno. Mi schiarii la voce e avanzai in mezzo al labirinto di scrivanie. Il trio smise di parlare e si voltò verso di me. Riconoscendomi, gli investigatori dell'SQ si alzarono e mi rivolsero un sorriso. Claudel rimase seduto. Senza neppure sforzarsi di mascherare il suo disappunto, continuò a flettere i piedi in su e in giù e a ispezionarsi le scarpe. Si interruppe solo per lanciare un'altra occhiata all'orologio.

«Come sta, dottoressa Brennan?» mi domandò Ryan in inglese porgendomi la mano. «È stata a casa di recente?»

«Veramente non ci vado da qualche mese.» Aveva una stretta poderosa.

«Volevo sempre chiederle... per caso mette in valigia anche un AK-47 quando torna laggiù?»

«No, non è necessario, tutte le famiglie ne tengono uno. Già montato.»

Le loro battute sulla violenza negli Stati Uniti non mi facevano più alcun effetto.

«E avete anche il gabinetto in casa?» mi domandò Bertrand. Il suo argomento preferito invece era l'arretratezza degli stati del sud.

«No, solo negli hotel di lusso.»

Dei tre, solo Ryan parve imbarazzato.

Andrew Ryan era un investigatore dell'SQ piuttosto anomalo. Figlio unico di genitori irlandesi, era cresciuto nella provincia della Nova Scoria. I genitori, entrambi medici, avevano studiato a Londra ed erano emigrati in Canada senza conoscere il francese. Si aspettavano che il figlio seguisse la loro carriera e, avendo sperimentato di persona i limiti del monolinguismo, si erano impegnati a fargli imparare anche il francese.

Nel corso dei primi anni alla Saint-Francis Xavier, però, le cose avevano cominciato a prendere una brutta piega. Sedotto dal fascino della vita spericolata, Ryan aveva avuto problemi con l'alcool e con pasticche varie, fino a estraniarsi quasi del tutto dalla vita del campus. Ai libri aveva iniziato a preferire i locali loschi e puzzolenti di birra frequentati da spacciatori e da gang di motociclisti ed era diventato molto noto alla polizia locale per le sue ripetute sbronze smaltite in guardina. Una notte era stato ricoverato al St. Martha's Hospital perché un cocainomane gli aveva trapassato il collo con un coltello mancando per un pelo la carotide.

Come per i primi cristiani, la sua conversione era stata immediata e totale. Ma anziché spezzare del tutto i suoi legami con i vecchi giri, Ryan era semplicemente passato dall'altra parte. Aveva conseguito la laurea in criminologia, era entrato nell'SQ e aveva fatto carriera fino al grado di tenente.

Il tempo trascorso sulla strada gli era tornato alquanto utile. Educato e formale nel linguaggio, all'occasione sapeva anche essere un uomo aggressivo capace di farsi rispettare e di tenere testa ai malavitosi. Pur non avendo mai lavorato con lui, conoscevo la sua storia grazie alle chiacchiere che circolavano nella Omicidi, ma mai nessuno mi aveva fatto un commento negativo sul suo conto.

«Qual buon vento?» riprese, indicando la finestra. «Non dovrebbe essere in giro a festeggiare?»

Dal colletto gli sbucava una cicatrice sottile che si arrampicava lungo il collo. Liscia e lucida come un serpente di lattice.

«Colpa della mia inesistente vita sociale. Quando i negozi sono chiusi, non mi resta niente da fare.»

Lo dissi scostandomi la frangia dalla fronte. In quel momento mi ricordai della mia tenuta sportiva, e di fronte al loro look impeccabile provai un leggero imbarazzo. Quei tre sembravano usciti da una pubblicità di L'Uomo Vogue.

Bertrand lasciò la sua scrivania e si avvicinò per darmi la mano, fra sorrisi e cenni d'assenso. Gliela strinsi. Claudel continuava a non guardarmi. Avevo bisogno di lui quanto di una brutta infezione.

«Mi chiedevo se era possibile dare un'occhiata a un caso dell'anno scorso. Si chiama Chantale Trottier. È stata uccisa nell'ottobre del 1993 e il cadavere ritrovato a Saint-Jérôme.»

Bertrand schioccò le dita, girandosi di nuovo dalla mia parte.

«Sì, ricordo. La ragazzina nella discarica. Non abbiamo ancora inchiodato il bastardo che l'ha fatta fuori.»

Con la coda dell'occhio notai lo sguardo di Claudel spostarsi verso Ryan. Per quanto impercettibile, quel movimento solleticò la mia curiosità. Dubitavo che Claudel fosse lì per un incontro di piacere. Sicuramente avevano discusso dell'omicidio del giorno precedente, e mi sarebbe piaciuto sapere se avevano parlato di Isabelle Gagnon o di Chantale Trottier.

«Ma certo», disse Ryan, sorridente ma professionale. «Qualunque cosa le serva. Crede che ci sia sfuggito qualcosa?»

Estrasse una sigaretta dal pacchetto, se la infilò in bocca e ne offrì una anche a me. Rifiutai.

«No, no, non è per questo», dissi. «È che sto lavorando a un paio di casi che continuano a ricordarmela. Non sono nemmeno sicura di cosa sto cercando. Vorrei solo controllare le foto della scena del delitto e magari il rapporto finale.»

«Già... conosco la sensazione», commentò Ryan, emettendo una boccata di fumo. Se avesse saputo che quei casi erano anche di Claudel, non avrebbe continuato. «Qualche volta non possiamo fare altro che seguire il nostro istinto. Che cosa pensa di aver scoperto?»

«Crede che ci sia in giro uno psicopatico responsabile di tutti gli omicidi commessi dai tempi di Cristoforo Colombo.»

Claudel parlò con voce piatta, senza quasi muovere le labbra, quindi riportò lo sguardo sulle scarpe, ostentando tutto il suo disprezzo. Mi voltai e decisi di ignorarlo.

Ryan gli sorrise. «E dai, Luc, dacci un taglio... un controllo in più non ha mai ucciso nessuno. Non siamo certo stati dei fulmini nel beccare questo bastardo.»

Claudel ebbe un gesto di disappunto e scosse la testa. Ancora una volta guardò l'orologio. Poi si rivolse a me. «Che cosa ha trovato?» domandò.

Prima che potessi rispondere la porta si spalancò e Charbonneau fece ingresso nella sala. A passo sostenuto avanzò tra le scrivanie, agitando un foglio di carta con la mano sinistra.

«L'abbiamo incastrato», disse. «Quel figlio di puttana è fregato.» Appariva congestionato in viso e aveva il respiro affannoso.

«Era ora», commentò Claudel. «Fammi vedere.» Si rivolse a Charbonneau come a un fattorino, impaziente al punto da scordarsi le più elementari regole della buona educazione.

Charbonneau corrugò la fronte ma gli passò i fogli, quindi i tre uomini si strinsero come i giocatori di una squadra di football che consultano uno schema di gioco. Charbonneau riprese a parlare.

«Quel sacco di merda ha usato la carta di credito della vittima un'ora dopo averla uccisa. Forse voleva divertirsi ancora un po', così è andato dal dépanneur dietro l'angolo a prelevare qualche spicciolo. Peccato che ci fosse una telecamera in funzione puntata sulla cassa. Voilà! I vostri momenti migliori solo su carta Kodak...»

Ammiccò in direzione della fotocopia.

«Proprio una bellezza, vero? Stamattina sono passato per mostrarla al commesso, ma era quello del turno di notte e non mi ha saputo dire il nome del bastardo. Però ha riconosciuto la faccia. Ci ha consigliato di parlare con quello che arriva dopo le nove. A quanto pare il nostro uomo è un cliente abituale.»

«Oh, cazzo», fece Bertrand.

Ryan sbirciò la foto chinandosi al di sopra del collega con la sua figura alta e slanciata.

«Così questo sarebbe lo stronzo», rincarò Claudel. «Okay, andiamo a inchiodare questo rotto in culo.»

«Vorrei venire anch'io.»

Ovviamente si erano dimenticati di me. Quando si voltarono a guardarmi, lessi sulle loro facce un misto di divertimento e di curiosità per come si sarebbe evoluta la situazione.

«C'est impossible», sentenziò Claudel, il solo a ostinarsi a parlare in francese. Muso duro e mascella contratta, i suoi occhi non tradivano la minima benevolenza.

Vogliamo aprire le ostilità?

«Sottotenente Claudel», replicai nella stessa lingua, scegliendo molto bene le parole, «ritengo di aver rilevato corrispondenze significative fra i casi di omicidio attualmente al mio esame. Qualora venissero confermate, dietro questi delitti potrebbe esistere un unico individuo, forse proprio uno psicopatico, come lei lo chiama. Naturalmente potrei sbagliarmi, così come potrei avere ragione. Lei è pronto ad assumersi la responsabilità di ignorare questa ipotesi, mettendo a repentaglio la vita di altri innocenti?»

Educata ma ferma. Neanch'io mi stavo divertendo molto.

«Al diavolo, Luc, lasciala venire con noi», intervenne Charbonneau. «In fondo andiamo solo a fare due chiacchiere.»

«Ma sì, tanto ormai lo becchiamo in ogni caso, con lei o senza di lei», insistette Ryan.

Claudel non disse nulla. Prese le chiavi, si ficcò in tasca la foto e mi passò davanti dirigendosi verso la porta.

«Si parte», annunciò Charbonneau.

Qualcosa mi diceva che ancora una volta avrei fatto gli straordinari.

 

9

 

Arrivare non fu impresa facile. Charbonneau si era messo al volante e aveva imboccato il Boulevard De Maisonneuve in direzione ovest, mentre io mi ero seduta dietro e guardavo fuori dal finestrino, ignorando le scariche elettrostatiche che provenivano dalla radio. L'afa era insopportabile e dai marciapiedi si innalzavano i vapori tremuli della calura.

Montréal era pervasa di fervore patriottico. Il fleur-de-lis era ovunque: esibito da finestre e balconi; sventolato su bandiere e manifesti; indossato su ogni tipo di indumento; dipinto sulle facce. Da Centre-Ville verso est, fino alla Main, migliaia di cittadini festosi e sudati dilagavano per le strade, rallentando la circolazione come piastrine in un'arteria. La folla ondeggiava come una marea bianca e azzurra, apparentemente priva di una meta precisa, anche se quasi tutti sembravano confluire verso nord, in direzione della Sherbrooke e della parata. Alle 2 del pomeriggio manifestanti e curiosi avevano lasciato la Saint-Urbain proseguendo rapidi sulla Sherbrooke. In quel momento sfilavano proprio davanti a noi.

Il ronzio dell'impianto di condizionamento non riusciva a coprire le risate e gli sporadici ritornelli delle canzoni. Era già scoppiato qualche diverbio. Mentre eravamo fermi a un semaforo, ad Amherst, osservai uno sbruffone che spingeva la sua ragazza contro un muro. Aveva i capelli color avorio sporco, ricci in alto e lunghi sul collo; la pelle di un bianco mozzarella stava già virando verso l'aragosta. Ripartimmo prima che la scena entrasse nel vivo, e mi restò in mente l'espressione stupita e interrogativa della ragazza sovrapposta al seno di una donna nuda. Era quella del cartellone della mostra di Tamara de Lempicka al Musée des Beaux Arts. «Une femme libre»,strillava, una donna libera. Una delle molte ironie della vita. Immaginai che il cretino non avrebbe passato una bella nottata e provai una certa soddisfazione. E forse si sarebbe anche coperto di vesciche.

«Fammi rivedere un attimo quella foto», disse a un tratto Charbonneau.

Claudel estrasse il foglio dalla tasca e glielo porse. Continuando a tenere d'occhio il traffico, si mise a studiarla.

«Certo non dice granché, eh?» commentò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. In silenzio mi passò la foto da sopra lo schienale.

Era la copia di un unico fotogramma in bianco e nero molto ingrandito, che inquadrava il soggetto dall'alto e da destra. Mostrava l'immagine sfocata di un uomo concentrato nell'operazione di inserire o estrarre una tessera da uno sportello automatico.

I capelli, corti e radi, erano appiattiti sulla fronte in una sparuta frangetta. La sommità della testa, invece, era quasi calva e un evidente riporto da sinistra a destra tentava di mascherarne la cute. Il mio vezzo maschile preferito. Sexy quasi quanto un costume ascellare.

Un folto paio di sopracciglia sporgeva al di sopra degli occhi e le orecchie si aprivano come i petali di una viola del pensiero. L'uomo era di un pallore cadaverico e indossava una camicia a quadri infilata in qualcosa di simile a un paio di pantaloni da lavoro. La sgranatura e la prospettiva impedivano di individuare qualsiasi altro particolare. Dovevo concordare con Charbonneau: non diceva granché. Avrebbe potuto essere chiunque. Restituii il foglio senza fare commenti.

In Québec i dépanneurs sono rivendite di articoli vari e di generi alimentari di prima necessità. Li si trova ovunque sia possibile stipare scaffali e frigoriferi in uno spazio al chiuso, e punteggiano tutti i quartieri della città formando una rete capillare che soddisfa le esigenze di residenti e viaggiatori di passaggio. Vi si possono comprare latte, sigarette, birra e vino di buon comando; il resto dell'assortimento è determinato dalle preferenze dei clienti della zona. Non sono appariscenti e non hanno parcheggio, ma quelli più chic sono dotati di uno sportello automatico. Noi ci stavamo dirigendo verso uno di questi.

«Rue Berger?» Charbonneau domandò a Claudel.

«Oui. Imbocca la Sainte-Catherine e vai verso sud. Poi prendi il René-Lévesque verso Saint-Dominique e torna indietro verso nord. Laggiù è un labirinto di sensi unici.»

Charbonneau girò a sinistra e proseguì come indicato. Era così impaziente che continuava ad accelerare e a toccare il freno facendo sobbalzare la Chevrolet come una macchinina di un autoscontro. Avevo un po' di nausea e mi concentrai su quello che succedeva lungo la Saint-Denis, davanti alle boutique, ai bistrot e ai moderni edifici in mattoni della Université du Québec.

«Sacré bleu!»

«Ca-lice!» esclamò Charbonneau, mentre una Toyota station-wagon verde scuro gli tagliava la strada.

«Bastardo», aggiunse, schiacciando il freno ma sfiorando ugualmente il paraurti dell'altra auto.

Claudel lo ignorò, forse abituato alla guida nervosa del collega. Io avrei voluto una Xamamina, ma non dissi nulla.

Finalmente arrivammo al René-Lévesque e svoltammo in direzione ovest, per poi tagliare sulla Saint-Dominique. Imboccammo la Sainte-Catherine e mi ritrovai ancora una volta nella zona della Main, a meno di un isolato da dove lavoravano le ragazze di Gabby. Rue Berger era una delle vie laterali comprese nel piccolo scacchiere stretto fra il Saint-Laurent e la Saint-Denis, proprio di fronte a noi.

Charbonneau voltò l'angolo e accostò al marciapiede, all'altezza del Dépanneur Berger. Sulla porta un cartello malconcio prometteva bière et vin. Le vetrine erano ricoperte di pubblicità Molson e Labatt sbiadite dal sole e fissate con un nastro adesivo ingiallito e fiaccato dal tempo. Sul davanzale sottostante erano allineate file di mosche morte, stratificate secondo la stagione del decesso. I vetri erano protetti da sbarre di ferro e fuori dalla porta sostavano due tizi di una certa età seduti su sedie da cucina.

«Il nome del gestore è Halevi», annunciò Charbonneau dopo aver consultato il suo taccuino. «Non credo avrà molto da dirci.»

«Fanno sempre così. Ma basta torchiarli un po' per fargli tornare la memòria», ribatté Claudel, chiudendo la portiera.

I due tizi ci guardarono in silenzio.

Una fila di campanellini d'ottone segnalò il nostro ingresso. All'interno del negozio faceva caldo e aleggiava un odore di polvere, spezie e vecchi scatoloni. Due file di scaffali bifronti occupavano il locale in tutta la sua lunghezza, formando un corridoio centrale e due laterali. I ripiani impolverati esibivano un assortimento di conserve prossime alla scadenza.

In fondo e sulla destra una ghiacciaia conteneva sacchi colmi di noccioline, ceci, piselli secchi e farina; accanto ai sacchi avvizzivano delle verdure. Probabilmente nata in un'altra epoca, la ghiacciaia non ghiacciava più.

Lungo la parete di sinistra, invece, erano allineati alcuni frigoriferi verticali per il vino e la birra e un modesto contenitore refrigerato coperto da un foglio e che ospitava latte, olive e feta greca. Lo sportello automatico si trovava a destra di quest'ultimo. A parte ciò, il negozio non sembrava essere stato rinnovato dai tempi dell'ingresso dell'Alaska nella confederazione.

Il banco si trovava a destra della porta. Il signor Halevi vi era seduto dietro, accalorato in una conversazione al cellulare. Si passava di continuo la mano sulla testa calva, in un gesto che ormai sembrava solo il retaggio di una gioventù più villosa. Un cartello sulla cassa diceva: SORRIDI, IL SIGNORE TI AMA. Paonazzo e chiaramente stizzito, Halevi non sembrava toccato da quel consiglio. Rimasi in disparte a osservare.

Claudel si piazzò direttamente davanti al banco schiarendosi la voce, ma Halevi gli fece un cenno con la mano aperta e con la testa gli indicò di aspettare. Allora l'investigatore gli mostrò il tesserino e a sua volta scosse la testa. Per un attimo Halevi parve confuso, quindi pronunciò qualche rapida parola in hindi e attaccò. Dietro le lenti spesse, un paio di occhi enormi si spostarono da Claudel a Charbonneau e ritorno.

«Sì?» disse.

«Sei Bipin Halevi?» esordì Charbonneau in inglese.

«Sì.»

Charbonneau piazzò la foto sul banco. «Da' un'occhiata qui. Conosci questo tizio?»

Halevi ruotò il foglio verso di sé e si chinò spianando i bordi con le dita nervose. Era agitato e cercava di compiacerli, o almeno di dare l'impressione di voler collaborare. Molti dépanneur vendono sigarette di contrabbando e articoli da mercato nero, e le visite della polizia sono frequenti quanto quelle della Finanza.

«Sfido chiunque a riconoscere un uomo da questa roba. È stata presa dal video? Comunque è già venuto qualcun altro a chiedere. Cosa ha fatto?»

Parlava inglese con la cantilena tipica degli indiani del nord.

«Non hai nessuna idea di chi può essere?» lo interrogò Charbonneau, ignorandolo.

Halevi scrollò le spalle. «Con i clienti che ho io non si fanno troppe domande. E poi è sfocata. E ha la faccia girata dall'altra parte.»

Cambiò posizione sullo sgabello, rilassandosi. Il problema riguardava la videocassetta del sistema di sicurezza confiscata dalla polizia, dunque l'oggetto delle indagini non era lui.

«Sta da queste parti?» domandò Claudel.

«Ve l'ho già detto, non lo so.»

«Ti ricorda anche solo vagamente qualcuno?»

Halevi fissò la fotocopia.

«Forse. Sì, può essere. Ma non si vede bene. Vorrei potervi aiutare ma... Forse è uno che ho già visto.»

Charbonneau gli rivolse un'occhiata intensa, probabilmente ponendosi la mia stessa domanda: Halevi stava solo cercando di compiacerci, oppure in quella foto aveva davvero riconosciuto un volto noto?

«Chi?»

«Non... non so. Un cliente.»

«Ha qualche abitudine particolare?»

Halevi si fece inespressivo.

«Viene sempre alla stessa ora? Dalla stessa parte della via? Compra sempre la stessa cosa? Porta un accidenti di tutù?» Claudel cominciava a spazientirsi.

«Ve l'ho detto. Io non chiedo niente e non vedo niente. Vendo solo la mia roba. E di sera me ne torno a casa. Questa faccia per me è una delle tante. Gente che va e gente che viene.»

«Fino a che ora è aperto questo buco?»

«Fino alle due di notte.»

«E il tuo cliente viene di sera?»

«È possibile.»

Charbonneau prendeva appunti sul suo taccuino rilegato in pelle. Fino a quel momento però non aveva scritto molto.

«Ieri pomeriggio eri qui?»

Halevi annuì. «C'era molto lavoro... insomma, era il giorno prima di una festa. Magari la gente pensava che oggi ero chiuso.»

«E hai visto questo tizio entrare?»

Ancora una volta Halevi studiò la fotografia, portandosi le mani dietro la testa e grattando vigorosamente. Infine sospirò e sollevò le braccia in un gesto di impotenza.

Charbonneau infilò la foto nel taccuino e lo richiuse con un rumore secco, lasciando un biglietto da visita sul banco.

«Mister Halevi, se ti viene in mente qualcosa dacci un colpo di telefono. Per il momento grazie.»

«Certo, certo», disse l'uomo, ritrovando tutta la vivacità smarrita davanti al tesserino della polizia. «Vi chiamo di sicuro.»

«Certo, certo», gli fece il verso Claudel una volta fuori dal negozio. «Prima che quell'idiota ci chiami, Saddam Hussein fa in tempo a farsi suora.»

«Be', è il gestore di un dépanneur. può avere solo un sacco di riso al posto del cervello», rispose Charbonneau.

Mentre attraversavamo diretti all'auto mi voltai per dare un'occhiata: i due tizi erano ancora di guardia alla porta. Sembravano parte integrante del negozio, come i cani di pietra all'ingresso di un tempio buddhista.

«Mi dia la foto un minuto», dissi a Charbonneau.

Lui mi guardò sorpreso, ma poi mi consegnò il bottino. Claudel aprì la portiera, fu investito da una vampata di aria bollente, quindi appoggiò un braccio sul tetto, un piede al telaio e si dispose a godersi lo spettacolo. Mentre riattraversavo fece qualche commento con Charbonneau ma per mia fortuna non riuscii a distinguere le sue parole.

Puntai l'uomo seduto sulla destra. Indossava pantaloncini da jogging rosso sbiadito, una canottiera, calzini eleganti e scarpe di cuoio con i lacci. Le gambe ossute erano coperte di vene varicose che, sotto la pelle bianca e pastosa, sembravano altrettanti grumi di spaghetti. A un angolo della bocca, senza più tono per la totale mancanza di denti, penzolava una sigaretta. Seguì la mia marcia di avvicinamento con evidente curiosità.

«Bonjour», dissi.

«Ciao», mi rispose in inglese, sporgendosi in avanti per staccare la schiena sudata dalla sedia di plastica mezza rotta. Ci aveva sentiti parlare, o forse aveva riconosciuto il mio accento.

«Caldo, vero?»

«Ho conosciuto giorni anche più caldi.» Parlando faceva dondolare la sigaretta.

«Abita da queste parti?»

Sollevò il braccio scheletrico in direzione del Saint-Laurent.

«Posso farle qualche domanda?»

Accavallò nuovamente le gambe, annuendo.

Gli porsi il foglio.

«Ha mai visto quest'uomo?»

Sollevò la foto con la mano sinistra, allontanandola con il braccio e ripararandola dal sole con la mano destra. Aveva la faccia avvolta in una nuvola di fumo. Studiò l'immagine per un tempo infinito, quasi si fosse dimenticato di me. Nel frattempo osservai un gatto bianco e grigio coperto di macchie rosse irregolari scivolare sotto la sedia, costeggiare l'edificio e scomparire dietro l'angolo.

L'altro tizio appoggiò le mani sulle ginocchia e si alzò emettendo una specie di sordo grugnito. A giudicare dal colore della pelle, avrei detto che era seduto su quella sedia da centovent'anni. Si sistemò le bretelle e la cintura con cui reggeva i pantalonacci grigi, poi si avvicinò. Accostò la visiera del cappellino dei Mets alle spalle del suo compare e sbirciò la fotografia. Fu a quel punto che il primo me la restituì.

«Non lo riconoscerebbe neanche sua madre. Questa foto fa cagare.»

L'altro era più positivo.

«Abita da quelle parti», disse puntando un dito ingiallito verso il fondo dell'isolato, e in particolare verso una fatiscente casa di mattoni. Aveva una parlata così stretta che lo capivo a stento. Anche lui completamente sdentato, ogni volta che apriva bocca sembrava che il mento andasse a cercare il naso. Scosse la testa.

«Souvent?» Spesso? domandai.

«Hm, oui»,rispose lui, sollevando sopracciglia e spalle, sporgendo il labbro inferiore e voltando la mano in su e in giù. Spesso. Abbastanza.

Quello seduto scosse la stessa e si produsse in una smorfia di disgusto.

Feci segno a Claudel e a Charbonneau di raggiungermi e riferii loro quanto avevo saputo. Claudel mi guardò come fossi un moscone che continuava a ronzargli intorno, un maledetto fastidio di cui purtroppo non poteva non occuparsi. Lo fissai dritto negli occhi sfidandolo a dire qualcosa. Sapeva che adesso avrebbero dovuto interrogare anche i due vecchi.

Senza commentare le mie rivelazioni Charbonneau si voltò e si concentrò sulla coppia, mentre Claudel e io restammo ad ascoltare. Quel dialetto era un mitragliamento di finali tronche e di vocali strascicate. Capii poco dello scambio di battute, ma i gesti e i segni erano chiari come un titolo di giornale: Bretelle diceva che l'uomo viveva in fondo all'isolato; Vene Varicose non era d'accordo.

Alla fine Charbonneau si voltò verso di noi, indicò l'auto con un cenno della testa e ci invitò a seguirlo. Attraversai la strada in preda alla netta sensazione di avere due paia di occhi cisposi incollati alla schiena.

 

10

 

Appoggiato alla macchina, Charbonneau spinse una sigaretta fuori dal pacchetto e l'accese. Era teso come una trappola prossima a scattare. Per qualche istante parve rielaborare in silenzio la conversazione con i due vecchietti. Infine prese la parola, la bocca quasi immobile, le labbra due linee sottili.

«Allora, che ne dite?» domandò.

«Sembra proprio che quei due passino qui un sacco di tempo», commentai. Sotto la maglietta un rivolo di sudore mi colò lungo la schiena.

«Magari hanno le allucinazioni», disse Claudel.

«Magari hanno davvero visto quel rotto in culo», ribatté Charbonneau. Fece un altro tiro e scrollò la cenere con il dito medio.

«Be', con le informazioni che ci hanno dato non possiamo certo considerarli dei testimoni chiave.» Claudel.

«Già, ma siamo tutti d'accordo che il tipo non aveva tratti o caratteristiche particolari.» Charbonneau. «Anche perché i mutanti come lui cercano sempre di passare inosservati.»

«A me quello con le bretelle sembrava piuttosto sicuro.» Io.

Claudel sembrò spazientirsi. «Le uniche certezze di quei due sono la strada per il bar e per la banca del sangue. Sono gli unici posti che riuscirebbero a riconoscere.»

Charbonneau aspirò un'ultima volta, gettò a terra il mozzicone e lo spense con un piede. «Potrebbe essere un viaggio inutile, ma potrebbe anche succedere che lo troviamo là dentro. Per quanto mi riguarda non vorrei lasciarmi sfuggire un'occasione, quindi propongo di farci un salto. Se lo troviamo, per quel bastardo è finita.»

Claudel si strinse una volta di più nelle spalle. «D'accordo, ma io non voglio farmi fottere. Chiediamo rinforzi.»

Poi guardò Charbonneau, indicandomi con gli occhi e alzando interrogativamente le sopracciglia.

«A me non dà nessun fastidio», rispose Charbonneau.

Claudel scosse la testa, girò intorno alla macchina e scivolò nell'abitacolo dalla parte del passeggero. Attraverso il parabrezza lo vidi staccare il microfono della radio.

«Lei stia in campana», ne approfittò per dirmi Charbonneau. «E se succede qualcosa, si butti a terra.»

Apprezzai che si fosse astenuto dal raccomandarmi di non toccare niente.

Dopo qualche secondo Claudel si sporse dal finestrino.

«Allons-y», disse. Andiamo.

Una volta a bordo, si voltò verso di me. «Quando siamo là dentro non tocchi nulla. Se è il nostro uomo, non voglio sputtanare indizi preziosi.»

«Mi sforzerò», risposi, obbligandomi a sopprimere il sarcasmo dalla voce. «Sa, noi creature senza testosterone a volte fatichiamo a ricordare cose come questa.»

Si rigirò emettendo uno sbuffo, ma sono convinta che in presenza di un pubblico alleato avrebbe alzato gli occhi al cielo con una smorfia di sufficienza.

Arrivati a destinazione, Charbonneau accostò al marciapiede e tutti e tre ci fermammo a considerare l'edificio. Era circondato da lotti di terreno abbandonati. La distesa di cemento, solcata dalle crepe e invasa dalle erbacce, era coperta di bottiglie rotte, tipici ingredienti del degrado urbano. Uno dei muri era tappezzato dal murale di una capra con un'arma automatica appesa a ciascun orecchio e uno scheletro umano stretto in bocca. Mi domandai se qualcuno a parte il suo creatore sarebbe mai riuscito a leggervi qualche significato.

«Mi dicevano che oggi non si è ancora fatto vedere», ci informò Charbonneau, tamburellando con le dita sul volante.

«La pattuglia a che ora ha perlustrato la zona?» volle sapere Claudel.

«Alle dieci», rispose il collega, controllando l'orologio. Istintivamente anche noi imitammo il suo gesto. Grande soddisfazione del signor Pavlov. Comunque erano le tre e dieci.

«Forse l'amico è un dormiglione. Forse è ancora distrutto dalle fatiche di ieri», ironizzò Charbonneau.

«O forse non abita affatto qui e gli stronzi là fuori sono già piegati in due dal ridere.»

«Forse.»

Osservai un piccolo gruppo di ragazze attraversare il terreno incolto alle spalle dell'edificio. Si tenevano a braccetto con la tipica complicità degli adolescenti e indossavano pantaloncini corti con sopra disegnata la bandiera del Québec. I capelli, acconciati in tante treccine, erano colorati con uno spray azzurro. Ridevano, strette l'una all'altra nella calura estiva, e io pensai alla facilità con cui le loro giovani vite potevano essere stroncate dal gesto di un folle. Ingoiai la rabbia. Non potevo credere di essere veramente seduta a meno di dieci metri da un simile mostro.

Dopo un po' una volante bianca e azzurra si fermò dietro di noi. Charbonneau scese per andare a parlare con gli agenti, ma nel giro di un minuto era già di ritorno.

«Ci copriranno le spalle», disse in tono secco, ogni traccia di ironia scomparsa. «Allons-y.»

Quando aprii la portiera Claudel parve sul punto di dire qualcosa, poi cambiò idea e si allontanò a passo deciso. Charbonneau e io lo seguimmo. Mi accorsi che quest'ultimo si era sbottonato la giacca e teneva il braccio destro leggermente piegato, pronto all'azione. Quale azione? mi domandai.

L'edificio di mattoni rossi era l'unico rimasto in piedi in tutto l'isolato. I lotti circostanti apparivano disseminati di grandi blocchi di cemento, resti dimenticati dalla ritirata dei ghiacci. Una catena arrugginita e allentata correva lungo il lato sud dello stabile. La capra del murale guardava verso nord.

Di fronte a noi, sulla Berger, si aprivano tre vecchie porte bianche separate dalla strada da un unico gradino e da cui partivano altrettanti vialetti asfaltati che conducevano al marciapiede.

Sul vetro della terza porta, davanti a una tendina di pizzo grigia e molliccia, pendeva un cartello scritto a mano. Mi sforzai di leggere attraverso lo strato di sudiciume: CHAMBRES À LOUER, stanze in affitto. Claudel mise un piede sul gradino e premette il più alto dei due pulsanti situati accanto alla porta. Nessuna risposta. Suonò di nuovo, attese qualche secondo, poi bussò con energia.

«Tabernac!»mi strillò una voce nelle orecchie. La pesante imprecazione in québecois mi fece balzare il cuore in gola.

Mi girai. La voce proveniva da una finestra a una ventina di centimetri alla mia sinistra. Attraverso i vetri scorsi una faccia corrucciata e visibilmente infastidita.

«Cosa credi di fare, eh? Prova a sfondare quella porta, trou de cul, e te la faccio pagare.»

«Polizia», disse Claudel, ignorando l'insulto.

«Ah sì? Allora fammi vedere qualcosa.»

Avvicinò il tesserino di riconoscimento alla finestra. Il viso paonazzo e porcino di una donna si sporse, incorniciato da un foulard verde elettrico annodato in bella mostra sulla sommità della testa. Le due cocche puntavano verso l'alto ballonzolando nell'aria come le orecchie di un coniglio di peluche. A parte due armi automatiche in meno e quaranta chili in più, la donna vantava una notevole somiglianza con la capra del murale.

«Allora?» Spostò lo sguardo su ognuno di noi, e alla fine si fermò su di me, giudicandomi forse la meno minacciosa. Mi ritrovai così tre paia d'occhi puntati addosso.

«Vorremmo rivolgerle alcune domande», esordii, e subito la scontatezza di quella frase mi fece sentire terribilmente ridicola. Se non altro avevo evitato di concludere con un "signora",

«È per Jean-Marc?»

«Forse è meglio non parlarne qui, sulla strada», replicai. Chi era Jean-Marc?

La faccia ebbe un attimo di esitazione, poi scomparve all'interno. Dopo qualche istante e uno sferragliare di chiavistelli la porta si aprì, svelando alla vista un poderoso donnone avvolto in una vestaglia di poliestere giallo. Le ascelle e l'incavo dei gomiti erano circondati da aloni scuri, mentre tracce di sudore misto a sporcizia le si annidavano fra le pieghe del collo. Ci fece entrare, si voltò e, caracollando lungo uno stretto corridoio, scomparve dietro una porta sulla sinistra. La seguimmo in fila indiana, Claudel in testa e io per ultima. L'aria era impregnata di odore di cavolo e di grasso irrancidito e dovevano esserci almeno trentacinque gradi.

Il minuscolo appartamento, pervaso dal tanfo di una lettiera per gatti evidentemente trascurata, era stipato fino all'inverosimile di mobili massicci e antiquati, roba da grande magazzino. Dubitavo che i tessuti di rivestimento fossero mai stati rinnovati, e in salotto una passatoia di plastica trasparente attraversava in diagonale la squallida imitazione di un tappeto persiano. Non c'era un solo centimetro di spazio libero.

La donna si diresse verso una poltrona imbottita nei pressi della finestra e vi si lasciò cadere pesantemente, generando un movimento ondulatorio che si propagò fino al tavolino del televisore e a una lattina vuota di Diet Pepsi. Poi lanciò uno sguardo nervoso oltre la finestra. Mi domandai se stesse aspettando qualcuno in particolare o se stesse semplicemente cercando di riprendere la sua attività di sorvegliante bruscamente interrotta.

Le tesi la fotografia. Si mise a studiarla socchiudendo gli occhi, che subito scomparvero tra le palpebre foderate di grasso. Dopo qualche istante sollevò la testa verso di noi che, rimasti in piedi, la fissavamo dall'alto, e capì di essersi scelta una posizione poco strategica. Ormai però era troppo tardi. Allungò il collo, guardandoci a turno. Il suo atteggiamento si era già fatto più cauto. Sembrava aver optato per una maggior cautela.

«Signora...?» esordì Claudel.

«Marie-Ève Rochon. Qual è il problema? Jean-Marc è nei guai?»

«Lei è la custode qui?»

«Incasso gli affitti per conto del proprietario», rispose. Nonostante il poco spazio, riuscì a fare qualche movimento. La protesta della poltrona fu immediata e sonora.

«Lo conosce?» domandò Claudel, indicando la fotografia.

«Sì e no. Abita qui ma non lo conosco di persona.»

«Dove?»

«Al numero sei. Prima porta, stanza a pianterreno», rispose con un ampio gesto del braccio. La carne molle e bucherellata dalla cellulite tremolò come gelatina.

«Come si chiama?»

Ci pensò un momento, stropicciando distrattamente una cocca del foulard. Seguii una goccia di sudore nel suo lento percorso di discesa dalla fronte al mento. «Saint-Jacques. Anche se quelli, di solito, non usano il loro vero nome.»

Charbonneau prendeva appunti.

«Da quanto tempo vive qui?»

«Da un anno circa. Che è già tanto per questo posto. Qui arriva solo gente di passaggio. Non mi capita di vederlo molto spesso. Forse va e viene. Io non sono una che s'impiccia.» Abbassò lo sguardo e strinse le labbra, consapevole dell'ovvietà di quella bugia. «Non faccio domande, io.»

«E non chiede nessuna referenza?»

Socchiuse la bocca e sbuffò, scuotendo lentamente la testa.

«Il suo inquilino riceve visite?»

«Ve l'ho già detto, non lo incontro spesso.» Si interruppe un istante. Il foulard le era lentamente scivolato sulla testa e le enormi cocche pendevano a destra come due orecchie tristi. «Mi sembra di vederlo sempre da solo.»

Charbonneau si guardò in giro. «Gli altri appartamenti sono come questo?»

«Il mio è il più grande», dichiarò, accennando un sorriso e sollevando impercettibilmente il mento. Persino in quello squallore c'era spazio per l'orgoglio. «Gli altri sono un disastro. Certi sono delle semplici stanze con la piastra elettrica e il gabinetto.»

«Adesso è in casa?»

La donna si strinse nelle spalle.

«Dobbiamo parlargli. Venga con noi», annunciò Charbonneau chiudendo il taccuino.

Lo guardò sorpresa. «Moi?»

«Forse dovrà aiutarci a entrare nell'appartamento.»

La donna si sporse in avanti, passandosi le mani sulle cosce. «Questo non posso farlo. È violazione di domicilio. Dovete avere un mandato o qualcosa del genere», protestò, spalancando gli occhi e dilatando le narici.

Charbonneau la guardò dritta negli occhi senza dire una parola. Claudel sospirò rumorosamente, in un misto di noia e di irritazione. Un filo di condensa rotolò lungo la lattina di Pepsi e formò un cerchio alla sua base. Nessuno parlava né si muoveva.

«D'accordo, d'accordo... ma è stata una vostra idea.»

Cominciò a spingersi in avanti trascinando prima una natica e poi l'altra, simile a una barca a vela alle prese con una serie di brevi virate. La vestaglia le si arrampicò sulle gambe scoprendo enormi porzioni di pelle solcata da griglie di venuzze. Quando finalmente ebbe portato il baricentro sul bordo della poltrona, fece leva con le mani sui braccioli e si rimise in piedi.

Raggiunta una scrivania in fondo alla stanza, frugò brevemente in un cassetto e ne estrasse una chiave. Controllò il cartellino, poi, soddisfatta, la passò a Charbonneau.

«Grazie, signora. Saremo lieti di verificare che nello stabile sia tutto in ordine.»

Mentre ci allontanavamo la curiosità ebbe il sopravvento sulla diffidenza. «Ehi, cos'ha fatto quel ragazzo?»

«Prima di andare le riportiamo la chiave», rispose Claudel.

 

Imboccammo un corridoio identico a quello che avevamo appena lasciato. Una fila di porte si apriva a destra e a sinistra e, sul fondo, una ripida scala portava al piano superiore. Il numero sei era il primo sulla sinistra. In tutto l'edificio regnava una calma piuttosto inquietante.

Charbonneau si piazzò a sinistra della porta, io e Claudel a destra. Entrambi si erano aperti la giacca e Claudel teneva il palmo della mano appoggiato al calcio della calibro 357. Bussò. Nessuna risposta. Bussò una seconda volta. Stesso risultato.

I due investigatori si scambiarono un cenno d'intesa e Claudel annuì. Le sue labbra erano così contratte che il viso sembrava ancora più spigoloso. Charbonneau infilò la chiave e spalancò la porta. Aspettammo, immobili, ascoltando il silenzio. Niente.

«Saint-Jacques?»

Ancora niente.

Charbonneau alzò una mano verso di me. Lasciai entrare i due investigatori, quindi li seguii con il cuore in gola.

La stanza era quasi priva di mobili. A sinistra, nell'angolo in fondo, una tenda di plastica rosa appesa a una guida circolare delimitava la zona bagno. Da dov'ero riuscii a distinguere la base di una tazza igienica e una serie di tubi arrugginiti ricoperti da una colonia di materia vivente morbida e verdastra, che probabilmente portavano a un lavandino. La parete a destra della tenda era stata attrezzata con un ripiano in formica su cui erano appoggiati alcuni bicchieri di plastica, una piastra elettrica e una collezione di pentole e piatti spaiata.

Il lato sinistro era interamente occupato da un letto sfatto. Il tavolo, un grande piano di compensato sostenuto da due cavalietti contrassegnati dalla scritta «Comune di Montréal», poggiava contro la parete destra. Vi erano ammassati libri e fogli e la porzione di muro sovrastante era tappezzata di cartine, fotografie e articoli di giornale riuniti in un unico collage. Infilata sotto il tavolo c'era una sedia pieghevole di metallo. L'unica finestra si trovava a destra della porta d'ingresso. Due lampadine pendevano da un filo al soffitto.

«Niente male», commentò Charbonneau.

«Già. Proprio un angoletto di paradiso. Lo metterei allo stesso livello di un herpes e del parrucchino di Burt Reynolds.»

Claudel si avvicinò alla zona bagno, estrasse una penna dal taschino e con cautela scostò la tenda.

«Dovrei proporre al ministero della Difesa di prelevare qualche campione. Potrebbe rivelarsi materiale utile per una guerra batteriologica.» Lasciò ricadere la tenda e si avvicinò al tavolo.

«Il bastardo non è qui», disse Charbonneau, ributtando l'angolo di una coperta sul letto con la punta della scarpa.

Io andai a controllare stoviglie e utensili da cucina sul ripiano di formica. Due boccali da birra degli Expos. Una casseruola sbeccata incrostata di qualcosa che assomigliava a degli spaghetti. Un pezzo di formaggio mangiucchiato e annegato nella salsa in una scodella di ceramica azzurra. Una tazza di Burger King. Alcuni pacchettini di crackers vuoti.

Avvicinai una mano alla piastra elettrica e di colpo mi sentii il sangue gelarsi nelle vene. Era calda. Mi girai si scatto verso Charbonneau.

«E qui!» gridai.

In quel preciso istante nell'angolo destro della stanza si spalancò una porta. Claudel fu colpito in pieno dal battente, perse l'equilibrio e andò a sbattere con un braccio e la spalla contro la parete. Una figura si lanciò attraverso la stanza, il corpo piegato, le gambe tese a conquistare la via d'uscita rimasta aperta. Feci in tempo a sentire il respiro che gli raschiava in gola.

Poi, in quella corsa breve e disperata, per una frazione di secondo il fuggitivo alzò la testa. Da sotto la visiera di un berretto arancione due occhi piatti e scuri incontrarono i miei e io riconobbi lo sguardo di un animale terrorizzato. Nient'altro. Un attimo dopo era già scomparso.

Claudel ritrovò l'equilibrio, sfoderò la pistola e si precipitò fuori, immediatamente seguito da Charbonneau. Senza pensarci due volte, anch'io mi lanciai all'inseguimento.

 

11

 

Quando sbucai sulla strada rimasi abbagliata dalla luce del sole. Socchiudendo gli occhi esplorai la Berger in cerca di Charbonneau e Claudel. La sfilata si era ormai conclusa e la via era invasa dai manifestanti che defluivano dalla Sherbrooke. D'un tratto vidi Claudel fendere la folla a spallate, il volto contratto nello sforzo di farsi largo tra i corpi appiccicosi. Dietro di lui Charbonneau brandiva il distintivo a braccio teso, a mo' di machete nella giungla.

Ignara di quanto stava succedendo, la gente continuava imperterrita a festeggiare. Una biondona ossigenata si dimenava sulle spalle del fidanzato stringendo una bottiglia di Molson, braccia al cielo e testa rovesciata all'indietro. Un ubriaco si era avvolto in una bandiera del Québec e si lasciava penzolare da un lampione incitando la folla a gridare: «Québec pour les Québecois!»Nelle voci di quanti accoglievano l'invito rilevai una perentorietà che all'inizio del pomeriggio non avevo notato.

Mi diressi verso uno dei lotti abbandonati e montai su un blocco di cemento. In punta di piedi, presi a setacciare la folla. Di Saint-Jacques, o comunque si chiamasse, neanche l'ombra: approfittando della familiarità con il quartiere, doveva essere riuscito a seminarci.

Uno dei due agenti di rinforzo stava riagganciando il microfono, e poco dopo si unì all'inseguimento insieme al collega. Anche avesse lanciato un SOS via radio, dubitavo che una pattuglia potesse aprirsi un varco in quella ressa. I due avanzarono sgomitando fino all'incrocio fra la Sainte-Catherine e la Berger, piuttosto in ritardo rispetto a Claudel e a Charbonneau.

D'un tratto lo vidi. Il berretto da baseball arancione precedeva di pochi metri Charbonneau, che aveva imboccato la Sainte-Catherine e in mezzo a tutta quella folla non riusciva a distinguerlo. Saint-Jacques puntava a ovest, e in una frazione di secondo si era già dileguato. Agitai invano le braccia cercando di attirare l'attenzione, ma nessuno degli agenti mi vide e Claudel ormai chissà dov'era.

Abbandonai l'osservatorio per tuffarmi a mia volta nella mischia. L'odore di birra e pelle sudata combinato al profumo di olio abbronzante era insopportabile. Messa da parte ogni gentilezza, abbassai la testa e presi a farmi energicamente largo in quella marea umana. Purtroppo non potevo giustificare la mia brutalità con alcun distintivo, quindi spintonavo a destra e a sinistra facendo di tutto per evitare gli sguardi delle mie vittime. I più reagivano con ironia, ma qualcuno mi lanciò qualche insulto, quasi sempre riferito al mio genere di appartenenza.

Stavo cercando il cappellino di Saint-Jacques fra migliaia di teste, e presto mi resi conto che si trattava di un'impresa impossibile. Decisi allora di fermarmi a valutare quale fosse il modo migliore per raggiungere il punto in cui l'avevo avvistato, e dopo qualche secondo ripresi la mia rotta, implacabile come un rompighiaccio sul San Lorenzo.

Ormai ce l'avevo quasi fatta, mancavano solo pochi passi alla Sainte-Catherine. D'un tratto però qualcosa alle mie spalle iniziò a strattonarmi. Una mano grande quanto una racchetta da tennis mi si strinse intorno alla gola e un'altra si accanì sulla mia coda di cavallo facendomi schizzare il mento verso l'alto. Mi parve addirittura di sentire degli strani scricchiolii nel collo. In un attimo mi ritrovai schiacciata contro il petto sudato di una specie di yeti in canottiera. Una faccia mi si avvicinò alle orecchie, soffocandomi con una zaffata di vino inacidito mista a fumo di sigaretta.

«Ehi, plotte, che cazzo spingi, eh?»

Anche volendo, non avrei potuto rispondere. Quel fatto sembrò imbufalirlo ancora di più. Lasciati collo e capelli, mi piazzò le mani sulla schiena e mi diede un violento spintone. La testa mi schizzò in avanti come una catapulta e finii contro una donna in pantaloncini corti e tacchi a spillo, che mi accolse con un grido. Portai le mani in avanti in un estremo, inutile tentativo di ritrovare l'equilibrio, poi scivolai a terra picchiando con forza contro il ginocchio di qualcuno.

Istintivamente mi riparai la testa con le braccia, ma ormai dovevo essermi ferita sulla fronte e su una guancia. Il sangue mi pulsava nelle orecchie e sentivo il ghiaino penetrarmi nella carne del viso. Cercai di rialzarmi facendo leva sulle mani, ma in quel momento uno stivale mi pestò le dita procurandomi un dolore lancinante. Non vedevo altro che piedi, ginocchia e gambe e ben presto mi ritrovai travolta dalla folla che, ignara della mia presenza, continuava a camminare senza riuscire a evitarmi.

Mi girai su un fianco e tentai di mettermi carponi. I continui colpi mi impedivano di recuperare la posizione verticale e nessuno sembrava intenzionato a farmi da scudo o a intervenire in mio aiuto.

D'un tratto udii un urlo rabbioso e vidi la folla indietreggiare. Intorno a me si formò un piccolo varco e un attimo dopo mi ritrovai cinque dita che si agitavano impazienti davanti alla faccia. Le afferrai e, quasi sorpresa, nel giro di un istante rividi la luce del sole.

La mano che mi stava aiutando apparteneva a Claudel, che con l'altro braccio cercava di tenere indietro la folla. Vidi le sue labbra muoversi ma non riuscii a capire che cosa mi stava dicendo. Sembrava infastidito, come sempre, eppure non l'avevo mai visto così bello. Smise di parlare e mi guardò. Avevo una ferita sul ginocchio destro e una sbucciatura sui gomiti, la guancia destra era graffiata e sanguinante e l'occhio così gonfio che stentavo a tenerlo aperto.

Lasciando andare la presa, estrasse un fazzoletto dalla tasca e mi fece segno di tamponarmi il viso. Allungai la mano per prenderlo e mi accorsi di tremare. Cercai di pulirmi alla meglio dal sangue e dalla ghiaia quindi ripiegai il fazzoletto e me lo premetti contro la guancia.

«Stia vicina a me!» mi gridò Claudel a quel punto.

Obbedii.

Dapprima si aprì un varco verso l'altro lato della Berger, dove la folla era un po' meno fitta, e io lo seguii sulle gambe malferme. Poi si diresse verso l'auto. A quel punto presi fiato e lo tirai per un braccio. Si fermò e mi guardò con aria interrogativa. Scossi la testa con insistenza, ottenendo solo di farlo passare dall'irritazione allo stupore.

«È andato da quella parte!» urlai, indicando nella direzione opposta. «L'ho visto.»

Un uomo in costume da Tweedledee passò sfiorandomi. Stava mangiando un gelato e alcune gocce colate sulla pancia formavano una scia rossa simile a uno schizzo di sangue.

L'irritazione di Claudel sembrò trasformarsi in rabbia. «Adesso lei va alla macchina», mi ordinò.

«L'ho visto sulla Sainte-Catherine!» ripetei, pensando che non mi avesse sentita. «Era davanti a Les Foufounes Électriques! Andava verso il Saint-Laurent!» Mi accorsi da sola che il mio tono stava diventando isterico.

Finalmente però ero riuscita a catturare la sua attenzione. Esitò, come se stesse valutando i danni che avevo subito.

«Sta bene?»

«Sì.»

«Lei tornerà alla macchina?»

«D'accordo.» Stava già per allontanarsi, ma lo richiamai. «Aspetti un momento!» A fatica scavalcai il cavo di metallo arrugginito che delimitava il perimetro del lotto, poi scelsi un nuovo blocco di cemento e vi montai, scrutando il mare di teste alla ricerca di un berretto da baseball arancione. Niente. Claudel, impaziente, teneva d'occhio l'incrocio e al contempo mi guardava ansioso, un cane da slitta in attesa del segnale di partenza.

Purtroppo non ottenni alcun risultato. Alla fine scossi la testa e sollevai le mani in un gesto di resa.

«Lei vada. Io continuo a guardare.»

Cominciò a farsi largo nella direzione che gli avevo indicato, ma nel giro di pochi attimi la sua testa era già confusa fra le altre. Sembrava essere stato letteralmente fagocitato dalla ressa sulla Sainte-Catherine, come una proteina sconosciuta assediata da un esercito di anticorpi. Un attimo prima era un individuo, un attimo dopo un punto qualunque fra tanti.

Continuai a scrutare fino a non riuscire più a mettere a fuoco le immagini, ma i miei sforzi non portarono a nulla. Nessuna traccia di Saint-Jacques, né di Charbonneau. Oltre la Saint-Urbain intravidi una volante che tentava faticosamente di ritagliarsi un passaggio ai margini della folla, lampeggiando con le luci rosse e blu. La marea dei manifestanti però sembrava ignorare quella lamentosa richiesta di precedenza. D'un tratto colsi una pennellata di arancione, ma subito si rivelò una tigre completa di coda e scarpe da tennis. Dopo un po' mi passò vicino reggendo la testa del costume sotto un braccio e bevendo una Dr. Pepper.

Sotto il sole cocente la testa mi scoppiava per il dolore e sulla guancia si stava formando una crosta. Continuavo a perlustrare la superficie di quella marea. Non volevo darmi per vinta prima che Charbonneau e Claudel fossero di ritorno, ma sapevo già che era inutile. La parata e San Giovanni stesso avevano aiutato il nostro uomo. Saint-Jacques ci era scappato.

 

Un'ora dopo ci ritrovammo tutti intorno all'auto. I due investigatori si erano tolti giacca e cravatta, e le avevano lanciate sul sedile posteriore. Avevano il viso rigato di sudore, schiena e ascelle completamente fradice. Charbonneau era paonazzo e scarmigliato, sembrava uno schnauzer tosato male. Quanto a me, la maglietta era ridotta a uno straccio e i fuseaux erano così bagnati che avrei potuto strizzarli. Ormai, comunque, respiravamo in modo regolare, e la parola "cazzo" era stata pronunciata almeno una decina di volte con il contributo di tutti.

«Merde», disse Claudel a un certo punto. Alternativa accettabile.

Charbonneau si sporse nell'abitacolo ed estrasse un pacchetto di Players dal taschino della giacca. Si appoggiò a un paraurti, accese una sigaretta ed emise una boccata di fumo da un angolo delle labbra socchiuse.

«Il bastardo è riuscito a farsi largo tra la folla come uno scarafaggio nella merda.»

«Conosce bene la zona», dissi io, resistendo all'impulso di verificare con le dita i danni subiti dalla mia guancia. «E questo l'ha aiutato.»

Per un po' continuò a fumare.

«Pensa che fosse il tizio della foto?»

«E come diavolo faccio a saperlo», ribattei. «Non sono neanche riuscita a vederlo bene in faccia.»

Claudel fece una smorfia, poi prese un fazzoletto dalla tasca e si deterse il sudore dal collo.

Gli puntai addosso l'occhio ancora sano. «E lei, è riuscito a identificarlo?»

Altra smorfia.

Nel vederlo scuotere la testa, il mio proposito di evitare ogni commento svanì.

«Monsieur Claudel, lei continua a trattarmi come un'idiota, e io sto cominciando a incazzarmi.»

Sorrisetto di sufficienza.

«Come va la sua faccia?» mi domandò.

«Divinamente», risposi a denti stretti. «Alla mia età la dermoabrasione gratuita è un autentico lusso.»

«La prossima volta che decide di lanciarsi come una pazza all'inseguimento di un criminale, non si aspetti che torni a tirarla fuori dai pasticci.»

«La prossima volta, allora, cercate di sorvegliare meglio la zona delle operazioni, così non ce ne sarà bisogno.» Mi pulsavano le tempie e stavo stringendo i pugni così forte da incidermi sul palmo i segni delle unghie.

«D'accordo. Adesso però smettetela con queste stronzate», sentenziò Charbonneau, scagliando lontano la sigaretta. «Andiamo a ispezionare l'appartamento, piuttosto.»

Si rivolse agli agenti, fino a quel momento rimasti in silenzio.

«Chiamate la Scientifica.»

«Subito, capo», disse il più alto dirigendosi verso la volante.

Senza dire una parola seguimmo Charbonneau fino alla casa di mattoni rossi, dove subito ci infilammo nel corridoio mentre il secondo agente piantonava l'ingresso.

Durante la nostra assenza qualcuno aveva richiuso la porta che dava sulla strada, ma quella dell'appartamento era rimasta aperta. Entrammo e, come altrettanti attori sul palcoscenico, riprendemmo i nostri posti.

Io mi diressi in fondo alla stanza: la piastra elettrica ormai era fredda e in quel lasso di tempo l'aspetto degli avanzi non era certo migliorato. Tutto il resto era come prima.

Mi avvicinai quindi alla porta nell'angolo a destra. In quella zona il pavimento era coperto di scaglie d'intonaco che l'urto violento della maniglia aveva staccato dal muro. Il battente socchiuso lasciava intravedere una scala di legno che scendeva al piano inferiore. Dopo un primo gradino e un pianerottolo, curvava a novanta gradi verso destra e si perdeva nel buio. Per terra, contro la parete di fondo da cui, all'altezza degli occhi, spuntavano ganci arrugginiti, erano sparpagliate alcune lattine. A sinistra vidi un interruttore della luce, con i fili scoperti che si arricciavano su se stessi come vermi in una scatola di esche.

Charbonneau mi raggiunse e con una penna spalancò del tutto la porta. Gli indicai l'interruttore. Sempre usando la stessa penna, lo premette, e ai piedi della scala si accese una lampadina fioca. Restammo in ascolto. Nessun rumore. Si avvicinò anche Claudel.

Charbonneau avanzò di un passo, si fermò sul pianerottolo, quindi riprese a scendere lentamente. Lo seguii. Sotto le scarpe percepivo la debole protesta delle assi; le gambe mi tremavano come fossi reduce da una maratona, ma non cedetti alla tentazione di appoggiarmi alla parete. Il passaggio era stretto, e davanti a me vedevo solo le spalle di Charbonneau.

Sotto l'aria era umida e impregnata di odore di muffa. Per le mie guance in fiamme l'improvvisa sensazione di fresco fu una benedizione. Mi guardai intorno. Si trattava di un comune seminterrato, grande circa la metà dell'intero edificio. La parete opposta, di blocchi di calcestruzzo non intonacato, doveva essere stata aggiunta in un secondo tempo. Di fronte alla scala, e sulla destra, c'era una vasca di metallo contro cui era incastrato un lungo banco da lavoro in legno. Lo strato di vernice rosa si stava scrostando e sotto il piano si trovava una collezione di spazzole dalle setole ingiallite coperte di ragnatele. Sulla parete, arrotolato con cura, era appeso un tubo di gomma nero da giardino.

Lo spazio sulla destra era occupato da una decrepita caldaia i cui tubi metallici salivano verso l'alto moltiplicandosi come i rami di una quercia. Alla sua base si era accumulato un cerchio di rifiuti che ricordava le offerte a un dio druidico. Nonostante la penombra, riuscii a distinguere cornici rotte, ruote di bicicletta, sedie da giardino sgangherate, latte di pittura vuote e una tazza igienica.

Una lampadina pendeva al centro dello stanzone. Nient'altro. Il resto dello scantinato era vuoto.

«Il figlio di puttana era sicuramente nascosto in cima alla scala», disse Charbonneau, osservando la rampa con le mani sui fianchi.

«Madame culograsso poteva anche dircelo di questa topaia», fece Claudel, toccando con la punta della scarpa il cumulo di rifiuti. «Sarebbe un ottimo nascondiglio per Salman Rushdie.»

Il riferimento letterario mi colpì, ma avendo deciso una volta per tutte di tornare al mio ruolo di mera osservatrice non feci commenti. Cominciavano a farmi molto male le gambe, e il collo non mi sembrava per niente a posto.

«Lo stronzo avrebbe anche potuto fotterci, da dietro quella porta.»

Né io né Charbonneau replicammo, ma avevamo pensato la stessa cosa.

Charbonneau rilassò le braccia e si avvicinò alla scala guardando in su. Poi salì e io lo seguii. Nella stanza il caldo era insopportabile. Andai verso il tavolo e cominciai a esaminare il collage di fogli attaccati alla parete.

Al centro c'era una grande cartina di Montréal circondata da ritagli di riviste e di quotidiani. A destra erano normali foto pornografiche stile Playboy e Hustler, da cui ammiccavano giovani donne nude o seminude e atteggiate nei modi più vari: alcune imbronciate, altre provocanti, altre ancora in preda a chissà quali estasi. Nessuna però riusciva molto convincente. L'autore del collage aveva gusti eclettici ma non sembrava mostrare preferenze particolari quanto a forma, razza, o colore di capelli. Notai che i bordi di ogni fotografia erano accuratamente tagliati e che tutte erano state pinzate con la cucitrice alla stessa distanza l'una dall'altra.

A sinistra della cartina era esposta una serie di articoli di giornale, in gran parte provenienti dalla stampa in lingua francese. I pochi in inglese erano tutti corredati di fotografie. Mi avvicinai e lessi alcune frasi sulla posa della prima pietra di una chiesa a Drummondville. Passai a un articolo in francese su un rapimento a Senneville. Poi lo sguardo mi cadde sulla pubblicità di Videodrome, sedicente «maggiore distributore di film pornografici del Canada». C'era un pezzo su un nude-bar tratto da Allô Police, che mostrava una certa Babette in giarrettiera di pelle e coperta di catene. Un altro parlava di uno sconosciuto che si era introdotto in una casa di Saint-Paul-du-Nord, aveva costruito un fantoccio con una camicia da notte e l'aveva pugnalato ripetutamente per poi abbandonarlo sul letto. Soltanto allora vidi qualcosa che mi fece gelare il sangue nelle vene.

In mezzo alla collezione di Saint-Jacques notai tre articoli meticolosamente graffettati e pinzati uno accanto all'altro. Parlavano tutti di serial killer ma, diversamente dagli altri, questi sembravano fotocopiati. Il primo descriveva Léopold Dion, «il mostro di Pont Rouge». Nella primavera del 1963 la polizia lo aveva trovato in casa con i cadaveri di quattro ragazzi. Erano stati tutti strangolati.

Il secondo narrava le imprese di Wayne Clifford Boden che, all'inizio del 1969, aveva strangolato e violentato una serie di donne di Montréal e Calgary. Al momento dell'arresto, nel 1971, le sue vittime ammontavano a quattro. A margine qualcuno aveva scritto «Bill l'étrangleur»,Bill lo strangolatore.

Il terzo articolo ripercorreva la carriera di William Dean Christenson, alias Bill l'éventreur, il Jack lo Squartatore di Montréal. Nei primi anni Ottanta aveva ucciso, decapitato e smembrato due donne.

«Ehi, venite a dare un'occhiata», dissi. Nonostante il caldo soffocante, io avevo freddo.

Charbonneau si avvicinò. «Oh, baby, baby»,intonò distrattamente quando lo sguardo gli cadde sul collage a destra della cartina. «Amore al grandangolo.»

«Intendevo qui», precisai, indicando gli articoli. «Legga questi.»

Anche Claudel ci raggiunse e i due uomini studiarono i fogli senza dire una parola. Puzzavano di sudore, di dopobarba e di camicie lavate in lavanderia. Fuori una donna chiamava Sophie, e per un istante non capii se si stesse rivolgendo a un animale o a una persona.

«Oh, merda», sospirò alla fine Charbonneau.

«Be', questo non significa ancora che siamo alle prese con Charlie Manson», disse Claudel in tono derisorio.

«Già. Forse è solo materiale per il suo dottorato di ricerca.»

Era la prima volta che la voce di Charbonneau tradiva una nota di fastidio.

«Forse soffre solo di manie di grandezza», continuò Claudel. «Forse ha visto i fratelli Menendez e ne è rimasto affascinato. Magari si crede il cavaliere senza macchia e senza paura e vuole combattere tutto il male del mondo. Oppure sta cercando di migliorare il suo francese e trova questa roba più interessante di altra. Che cazzo ne so? Comunque non c'è ancora nessuna prova che parli di un nuovo Jack lo Squartatore.» Lanciò un'occhiata in direzione della porta. «Dove diavolo è la Scientifica?»

Figlio di puttana, pensai, ma mi morsi la lingua.

Insieme a Charbonneau rivolsi la mia attenzione al piano del tavolo. Una pila di giornali era appoggiata contro la parete. Charbonneau utilizzò la sua penna per rovistare nel mucchio, sollevando i bordi e lasciandoli ricadere. Si trattava più che altro di annunci economici, la maggior parte dei quali provenienti da La Presse e La Gazette.

«Forse stava cercando un lavoro», fu l'ennesimo, sardonico commento di Claudel.

«Cosa c'è lì in mezzo?» Mentre Charbonneau scorreva la pila di giornali avevo intravisto qualcosa di giallo.

Inserì la penna sotto l'ultima porzione di fogli e scostò il resto verso la parete, scoprendo un blocco di carta legale. Mi domandai se l'arte della penna fosse una disciplina compresa nell'addestramento degli investigatori. Lasciando cadere alcuni giornali dal tavolo, spinse il blocco in avanti.

Era il classico notes di carta gialla a righe e la prima pagina appariva parzialmente scritta.

La sensazione di gelo provocata dagli articoli sui serial killer non era niente in confronto alla morsa che mi strinse quando lessi le parole scarabocchiate su quel foglio. Improvvisamente ogni tentativo di autocontrollo fallì e mi ritrovai attanagliata dalla paura.

Isabelle Gagnon. Margaret Adkins. Quei due nomi mi saltarono subito agli occhi. Insieme ad altri cinque formavano un elenco scritto a margine del blocco. Accanto, una serie di colonne separate da linee verticali. Sembrava un'innocua tabella contenente i dati personali dei soggetti citati e non era molto diversa da quella che io stessa avevo compilato, se non per quei cinque nomi che non conoscevo.

La prima colonna conteneva gli indirizzi. La seconda i numeri di telefono. La terza particolari riguardanti l'abitazione e abbreviati con le sigle app. c/entr. est.; cond.; 1° p.; casa c/cort. Le caselle della colonna successiva contenevano gruppi di lettere, ma solo in corrispondenza di alcuni nomi. Controllai la riga relativa a Margaret Adkins: Ma, Fi. Quelle abbreviazioni mi dicevano qualcosa. Chiusi gli occhi e per associazione di idee cercai di risalire alle parole complete.

«Sono i conviventi», dissi infine. «Guardate: marito, figlio.»

«Già. Gagnon ha Fr e Fd. Fratello e fidanzato», constatò Charbonneau.

«Vorrai dire finocchio depravato, forse», ironizzò Claudel. «E Do, che cosa dovrebbe significare?» chiese poi riferendosi all'abbreviazione dell'ultima colonna. Anche questa non sembrava però riguardare la totalità dei nomi.

Nessuno sapeva rispondere.

Charbonneau passò alla pagina successiva, e ammutoliti leggemmo la nuova serie di annotazioni. Il foglio era diviso in due metà, ciascuna dedicata a un nome e ulteriormente divisa in tre colonne: "giorno", "entrata" e "uscita". Gli spazi vuoti contenevano date e orari.

«Gesù Cristo Santissimo, gli faceva la posta come a delle quaglie, il bastardo, e poi quando uscivano le seguiva», esplose Charbonneau.

Claudel non fece alcun commento.

«Quel figlio di puttana le cacciava come fossero selvaggina», ripeté Charbonneau, come se la reiterazione servisse a rendere il concetto più credibile. Oppure meno.

«Un vero progetto di ricerca», osservai sottovoce. «E non l'ha ancora completato.»

«Che cosa?» Claudel.

«La Adkins e la Gagnon sono già morte. Queste date sono recenti. Ma chi sono le altre?»

«Merda.»

«Ma dove cazzo è la Scientifica?» Claudel infilò la porta e scomparve nel corridoio. Dopo un attimo lo sentii insultare l'agente rimasto di guardia.

Il mio sguardo tornò a posarsi sulla parete. Basta con quell'elenco. Ne avevo già a sufficienza. Faceva molto caldo, e in più ero esausta e dolorante. Inoltre la possibilità che avessi ragione e che quindi dovessi lavorare con Claudel non mi aiutava affatto a stare meglio.

Nel tentativo di distrarmi guardai la cartina. Era molto grande: includeva l'isola, il fiume, l'insieme dei sobborghi compresi nella Communauté Urbaine de Montréal e le zone circostanti. I vari elementi erano indicati in colori diversi: rosa per le aree urbane e bianco per il reticolo di strade che le attraversavano. Le grandi arterie, ovviamente, erano rosse o blu. Ovunque spiccava il verde dei parchi, dei campi da golf e dei cimiteri. Gli edifici pubblici erano arancioni, i centri commerciali lilla e le zone industriali grigie.

Mi concentrai su Centre-Ville, cercando la via dove abitavo. Era lunga solo un isolato e la complessità della ricerca mi fece capire come mai i taxisti facevano tanta fatica a trovarmi. In futuro sarei stata più comprensiva. O più precisa. Dopo aver risalito la Sherbrooke verso ovest fino all'incrocio con la Guy mi ero già persa. E a quel punto arrivò anche il terzo choc della giornata.

Il mio dito si era fermato all'altezza di Atwater, poco oltre il poligono arancione del Grand Séminaire. Guardando meglio notai che, nell'angolo sudoccidentale, proprio nel punto in cui era stato ritrovato il corpo di Isabelle Gagnon, qualcuno aveva tracciato una X racchiusa in un circoletto. Con il cuore in tumulto mi spostai verso est e cercai lo Stadio Olimpico.

«Monsieur Charbonneau, venga a vedere», lo invitai con un leggero tremore nella voce.

Si avvicinò.

«Dov'è lo stadio?» chiesi.

Me lo indicò con la penna, poi mi guardò.

«E il condominio di Margaret Adkins?»

Esitò un istante, quindi sfiorò con la penna una strada che partiva da Parc Maisonneuve e proseguiva verso sud. La punta rimase sospesa a mezz'aria ed entrambi fissammo la seconda minuscola X cerchiata.

«Dove viveva Chantale Trottier?»

«Sainte-Anne-de-Bellevue. Troppo fuori.»

Osservammo la cartina.

«Cerchiamo in modo sistematico, settore per settore», suggerii. «Io parto dall'angolo in alto a sinistra e scendo, lei parta da quello in basso a destra e risalga.»

La trovò prima lui. Era la terza X. Il segno si trovava sulla riva meridionale del fiume, nei pressi di Saint-Lambert. Charbonneau non era al corrente di omicidi commessi in quella zona. Claudel nemmeno. Cercammo ancora per una decina di minuti, ma le X sembravano finite.

Stavamo per procedere a un secondo esame della cartina, quando udimmo il furgone della Scientifica parcheggiare di fronte alla casa.

«Ma quanto cazzo ci avete messo?» li investì Claudel, non appena gli agenti ebbero fatto ingresso con le loro valigie di metallo.

«Oggi girare è impossibile, sembra di essere a Woodstock», si difese Pierre Gilbert. «C'è solo meno fango.» La faccia tonda era incorniciata da una chioma di capelli ricci che proseguiva in una barba altrettanto riccia. Mi ricordava un dio romano, anche se non riuscivo a ricordare quale. «Che cosa avete trovato di bello?»

«Hai presente la ragazza uccisa a Desjardins? Pare che il maniaco che l'ha fatta fuori abiti in questo cesso», spiegò Claudel. «Pare.» Indicò la stanza con ampio gesto del braccio. «Comunque si è lasciato dietro un sacco di roba interessante.»

«Bene, ora ci pensiamo noi», disse Gilbert con un sorriso di soddisfazione. Qualche ricciolo gli si era appiccicato alla fronte per il sudore. «Forza, diamo una bella spolverata.»

«C'è anche il seminterrato.»

«Oui.» A parte l'intonazione, discendente invece che ascendente, quella risposta suonava piuttosto come una domanda. «Ah, sì?»

«Claude, tu comincia da sotto. Marcie, occupati di quel ripiano.»

Marcie si spostò verso il fondo della stanza, estrasse una scatola dalla sua valigia di metallo e iniziò a cospargere di polvere nera il ripiano di formica. L'altro tecnico scese nel seminterrato. Indossato un paio di guanti, Pierre Gilbert si mise al lavoro infilando in un grande sacco di plastica i ritagli di giornali rimasti sulla scrivania.

«Qu'est-ce que c'est?» Che cos'è? Esclamò poco dopo, sollevando un quadratino di carta dal centro della pila. «C'est toi?»Sei tu?

Stava chiedendolo a me.

Senza dire una parola mi avvicinai per osservare ciò che aveva in mano. Era la foto apparsa sul Journal del mattino. La vista di quei dettagli così familiari - i jeans, la maglietta «Absolutely Irish», gli occhiali da sole Bausch and Lomb - mi sconvolse.

Per la seconda volta nell'arco di una giornata ebbi un flash dell'esumazione di due anni prima. L'immagine era stata ritagliata e rifilata con la stessa meticolosa precisione riservata alle altre sulla parete. Unica differenza: la mia figura era stata cerchiata a penna più volte, e avevo una grande X sul petto.

 

12

 

Trascorsi gran parte del weekend a letto. Sabato mattina avevo tentato di alzarmi ma avevo dovuto desistere: le gambe mi tremavano e se giravo la testa mi sentivo trafiggere il collo da un dolore lancinante che saliva fino alla base del cranio. La guancia era coperta da una crosta brunastra e l'occhio destro sembrava una prugna andata a male. Fu un weekend di brodini, aspirine e cerotti; due giorni passati a sonnecchiare sul divano davanti al televisore. Alle nove di sera ero già sotto le lenzuola.

Lunedì mattina il martello pneumatico che avevo nel cervello aveva smesso di torturarmi. Riuscivo a camminare, sia pure a fatica, e a ruotare leggermente la testa. Mi alzai presto, feci una doccia e per le otto e mezzo ero già in ufficio.

Sulla scrivania trovai tre richieste scritte. Le ignorai e provai a comporre il numero di Gabby, ma trovai la segreteria. Quindi mi preparai una tazza di caffè solubile e diedi un'occhiata ai foglietti dei messaggi telefonici prelevati dalla mia casella: un investigatore di Verdun; Andrew Ryan; il terzo era un cronista. Gettai via l'ultimo e misi gli altri accanto al telefono. Nessuna chiamata da Charbonneau né da Claudel. E nemmeno da Gabby.

Composi il numero del comando della CUM e chiesi di Charbonneau. Qualche secondo di attesa, poi mi fu detto che non c'era. Idem per Claudel. Lasciai un messaggio, domandandomi se erano già usciti in servizio o se semplicemente attaccavano più tardi.

Provai con Andrew Ryan, ma la linea era occupata. Rendendomi conto che quel mattino il telefono non mi sarebbe stato di grande aiuto, decisi di andare a fargli una visita di persona. Magari stava discutendo del caso Trottier.

In ascensore scesi fino al primo piano e mi diressi verso la sala dell'SQ. Entrando notai subito che l'atmosfera era molto più animata rispetto all'ultima volta in cui ero stata lì. Mentre passavo fra le scrivanie mi sentii mille occhi puntati addosso. Era evidente che sapevano tutto di venerdì e questo mi procurava un certo disagio.

«Dottoressa Brennan», mi salutò Ryan in inglese, alzandosi dalla sedia e tendendomi una mano. Nel vedere la ferita sulla mia guancia, la faccia gli si aprì in un sorriso. «Sta provando una nuova tonalità di fard?»

«Esatto. Si chiama rosa cemento. Ho saputo che mi ha chiamata.»

Per un attimo parve non capire.

«Ah, sì. Ho trovato il fascicolo del caso Trottier. Se vuole può dargli un'occhiata.»

Armeggiò con alcune cartelline sparpagliandole sulla scrivania, poi ne scelse una e me la passò. In quello stesso momento il suo collega entrò nel salone e venne verso di noi. Quella mattina Bertrand indossava una giacca sportiva grigio chiaro abbinata a pantaloni di una tonalità appena più scura, camicia nera e cravatta a fiori bianca e nera. Abbronzatura a parte, sembrava uscito da uno spettacolo televisivo degli anni Cinquanta.

«Come va, dottoressa Brennan?»

«Ottimamente, grazie.»

«Wow... splendido effetto.»

«L'asfalto non è il massimo per la pelle», dissi, cercando un posto dove aprire la cartellina. «Posso appoggiarmi là?» chiesi, indicando una scrivania vuota.

«Prego, tanto sono già usciti.»

Mi sedetti e cominciai a esaminare il contenuto del fascicolo: fotografie, referti medici, interviste... Chantale Trottier. Ripensare a quel caso era come camminare a piedi nudi sulla brace, il dolore per quella ragazza era ancora vivo, intenso, proprio come allora. Ben presto dovetti distogliere lo sguardo e concedermi una pausa da tutta quella sofferenza.

Il 16 ottobre 1993 una ragazza di sedici anni si alza controvoglia, si stira la camicetta, poi passa un'ora a lavarsi e vestirsi. Salta la colazione preparata dalla madre ed esce di casa per incontrare dei compagni con cui andrà a prendere il treno per la scuola. Indossa il maglione a quadri dell'uniforme e calzettoni alle ginocchia. I libri sono in uno zaino. Per tutta la mattinata rìde e scherza. Alla fine della lezione di matematica mangia i panini del pranzo. Dopo la scuola scompare. Trenta ore dopo i pezzi del suo corpo massacrato vengono ritrovati chiusi in sacchi per l'immondizia a circa sessantacinque chilometri da casa.

Un'ombra si allungò sulla scrivania e quando sollevai lo sguardo mi ritrovai davanti Bertrand con due tazze di caffè in mano. Quella destinata a me diceva: «Da lunedì mi metto a dieta». Riconoscente, allungai il braccio e la presi.

«Allora? Qualcosa d'interessante?»

«Non molto.» Sorso di caffè. «Aveva sedici anni. Trovata a Saint-Jérôme.»

«Aha...»

«Isabelle Gagnon ne aveva ventitré ed è stata trovata in Centre-Ville. Anche lei impacchettata in sacchi per l'immondizia», riflettei a voce alta.

Bertrand si grattò la testa.

«Margaret Adkins aveva ventiquattro anni. Il cadavere è stato rinvenuto in casa, dalle parti dello stadio.»

«Però non l'hanno fatta a pezzi.»

«Già, ma l'hanno comunque sventrata e mutilata. Forse l'assassino è stato disturbato. O magari aveva meno tempo.»

Sorseggiò rumorosamente il suo caffè. Quando abbassò la tazza notai che i baffi erano imperlati di gocce brune.

«Isabelle Gagnon e Margaret Adkins erano entrambe sull'elenco di Saint-Jacques.» Diedi per scontato che ormai la storia fosse risaputa, e infatti non mi sbagliavo.

«Sì, ma è anche vero che di quei casi hanno parlato tutti i mezzi d'informazione. Il nostro uomo ha ritagliato gli articoli da Allô Police e da Photo Police. Potrebbe essere semplicemente un malato che si mitre di immondizia.»

«Potrebbe.» Bevvi un altro sorso di caffè. In realtà non ne ero affatto convinta.

«In casa non gli avete forse trovato un'intera pila di artìcoli dedicati a roba simile?»

«Sì», confermò Ryan alle nostre spalle. «Lo stronzo collezionava ritagli su ogni genere di schifezze. Francoeur, non è a te che erano capitati un paio di casi strani quando facevi i sopralluoghi?» Si era rivolto a un uomo grassoccio e tarchiato con la testa lucida e abbronzata, intento a gustarsi una barretta di Snickers quattro scrivanie più in là.

Francoeur posò il cioccolato leccandosi le dita e annuendo. Gli occhiali gli scivolarono leggermente verso la punta del naso.

«Uhm... sì, due.» Leccata. «Una storiaccia.» Altra leccata. «Il fetente penetra nell'abitazione, rovista in camera da letto e fa una specie di fantoccio con il pigiama o con una tuta... insomma, con un indumento che appartiene alla padrona di casa. Lo imbottisce, gli mette della biancheria intima, poi lo stende sul letto e lo massacra di colpi. Forse gli viene più duro così che davanti a una finale di football.» Leccata. Ennesima leccata. «Alla fine se ne va senza portare via niente.»

«Sperma?»

«Negativo. Pratica il sesso sicuro, immagino.»

«Che cosa ha usato?»

«Probabilmente un coltello, ma non l'abbiamo mai trovato. Forse se lo porta dietro!» Francoeur scartò un altro pezzo di Snickers e diede un morso.

«Come fa a entrare in casa?»

«Finestra della camera da letto», bofonchiò, un impasto di caramello e noccioline.

«Quando?»

«Di notte, in genere.»

«E dove allestisce i suoi spettacolini?»

Per un istante Francoeur smise di masticare. Con l'unghia del pollice rimosse un frammento di nocciolina da un dente, la ispezionò e infine la scagliò via.

«Uno a Saint-Calixte, l'altro mi sembra a Saint-Hubert. Quello di cui si parla nel ritaglio di giornale è di un paio di settimane fa, a Saint-Paul-du-Nord.» Si passò la lingua sugli incisivi, facendola correre sotto il labbro superiore. «Credo che uno dei casi riguardasse la CUM. Se non sbaglio circa un anno fa ci hanno interpellati proprio a questo proposito.»

Silenzio.

«Prima o poi lo beccheranno, il ragazzo non ha certo priorità assoluta. In fondo non fa male a nessuno e non ruba mai nulla. Ha solo un concetto molto personale di appuntamento galante.»

Francoeur appallottolò la carta dello Snickers e la lanciò nel cestino accanto alla scrivania.

«Ho sentito che la donna di Saint-Paul-du-Nord non ha nemmeno voluto sporgere denuncia.»

«Già», commentò Ryan, «con un caso così non puoi sperare neanche in una promozione.»

«Forse il nostro eroe si è tenuto l'articolo perché queste imprese glielo fanno venire duro. C'era anche un pezzo su quella ragazza di Senneville, ma non può essere stato lui perché alla fine è saltato fuori che era il padre a tenerla segregata.» Francoeur si appoggiò allo schienale. «Forse si identifica semplicemente con tutti i pervertiti in circolazione.»

Avevo seguito lo scambio di battute senza guardare gli interlocutori, concentrata su una grande cartina della città appesa dietro la testa di Francoeur. Assomigliava a quella che avevo visto nell'appartamento sulla Berger, ma la scala era inferiore, perciò includeva anche i sobborghi orientali e occidentali, esterni all'isola di Montréal.

Presto la discussione si allargò alla totalità dei presenti, che contribuirono aggiungendo un gran numero di aneddoti su guardoni e maniaci sessuali. Mentre le chiacchiere rimbalzavano da una scrivania all'altra, in silenzio mi alzai e mi avvicinai alla cartina per studiarla meglio, sperando di non attirare troppa attenzione. Iniziai ripetendo l'esercizio fatto con Charbonneau a casa di Saint-Jacques e localizzando mentalmente tutte le X. La voce di Ryan mi fece trasalire.

«A cosa sta pensando?» domandò.

Da una mensola sotto la cartina presi una scatola di spilli. Ne scelsi uno con la capocchia rossa e lo piantai nell'angolo sudoccidentale del Grand Séminaire.

«Gagnon», dissi.

Quindi ne infilai un altro sotto lo Stadio Olimpico.

«Adkins.»

Il terzo finì nell'angolo in alto a sinistra, nei pressi di un grande bacino formato dal fiume noto come Lac des Deux-Montagnes.

«Trottier.»

L'isola su cui sorge Montréal ha la forma di un piede, con la caviglia orientata a nord-ovest, il tallone a sud e le dita a nord-est. Due degli spilli si trovavano proprio sopra la pianta: uno sul tallone, a Centre-Ville, l'altro a est, a metà strada verso le dita. Il terzo era sopra la caviglia, all'estremità occidentale dell'isola. La disposizione degli spilli non sembrava rivelare alcuno schema preciso.

«Saint-Jacques aveva marcato questi due punti», spiegai indicando uno degli spilli sopra la pianta e quello sulla caviglia.

Cercai la riva meridionale seguendo il Pont Victoria in direzione di Saint-Lambert e poi proseguendo verso sud. Ritrovai i nomi delle vie cercati il venerdì precedente e infilai un quarto spillo sulla riva del fiume, proprio sotto l'arco plantare. L'insieme di punti aveva sempre meno senso. Ryan mi guardò con aria interrogativa.

«Quella è la sua terza X.»

«E che cosa rappresenta?»

«Secondo lei?» domandai.

«Che diavolo ne so? Potrebbe essere il cadavere del suo cane Spike.» Diede un'occhiata all'orologio. «Senta, abbiamo questo...»

«Non crede che un sopralluogo sarebbe una buona idea?»

Mi guardò a lungo prima di rispondere. I suoi occhi sembravano due fari azzurri e mi sorprese il fatto di non averli mai notati prima. Scosse la testa.

«No, c'è qualcosa che non quadra. Non mi basta. La sua teoria del serial killer ha più buchi della Transcanadiana. Cerchi di riempirli. Mi porti qualche altro indizio, oppure dica a Claudel di fare una richiesta per un mandato di perquisizione dell'SQ. Adesso come adesso non è ancora di nostra competenza.»

Bertrand gli stava indicando l'orologio e con il pollice faceva segno verso la porta. Ryan lo guardò, annuì e tornò a puntare i suoi fari su di me.

Ma non aggiunse una sola parola. Scrutai la sua faccia sperando di leggervi un qualche cenno di incoraggiamento. Se anche c'era, non riuscii a vederlo.

«Ora devo andare. Quando ha finito lasci pure il fascicolo sulla mia scrivania.»

«D'accordo.»

«E... tenga gli occhi aperti, per favore.»

«Come?»

«Ho saputo delle sorprese che avete trovato laggiù. Questo bastardo potrebbe essere qualcosa di più di un semplice fanatico di sacchi per l'immondizia.» Si frugò in tasca, ne estrasse un biglietto da visita e vi scarabocchiò un numero. «Mi può trovare qui praticamente sempre. Se ha bisogno, chiami.»

 

Dieci minuti dopo ero seduta alla mia scrivania in preda a un senso di inquietudine e di frustrazione. Cercai di concentrarmi su altro, ma con scarso successo. A ogni squillo di telefono, vicino o lontano che fosse, istintivamente sollevavo la mia cornetta, nella speranza che si trattasse di Claudel o Charbonneau. Alle dieci e un quarto li richiamai.

«Resti in linea, per favore», disse una voce.

Poi: «Claudel».

«Sono la dottoressa Brennan.»

Silenzio da abisso marino.

«Oui.»

«Ha ricevuto i miei messaggi?»

«Oui.»

Disponibile come un evasore fiscale davanti a un ispettore della Finanza.

«Mi chiedevo se per caso avevate scoperto qualcosa su Saint-Jacques.»

Sbuffo sonoro. «Già... Saint-Jacques. Certo.»

Avrei voluto strappargli la lingua ma la situazione richiedeva molto tatto, regola prima nei rapporti con gli investigatori arroganti.

«Lei pensa che sia il suo vero nome?»

«Se quello si chiama così io sono Margaret Thatcher.»

«Allora, a che punto siete?»

Pausa. Lo immaginai alzare lo sguardo al soffitto valutando il modo migliore per liberarsi di me.

«Se proprio vuole sapere a che punto siamo, glielo dico: non siamo a nessun punto. Non abbiamo trovato niente. Nessuna arma sporca di sangue. Nessuna videocassetta. Nessuna confessione scritta. Nessun brandello di cadavere lasciato come ricordino. Niente di niente.»

«Impronte?»

«Nessuna utile.»

«Effetti personali?»

«I gusti del nostro uomo vanno dal severo al punitivo. Nessuno slancio creativo. Nessun effetto personale. Nessun indumento. Ah, ecco, una felpa e un paio di guanti vecchi di gomma. E una coperta sporca. È tutto.»

«Perché i guanti?»

«Per non rovinarsi le unghie, suppongo.»

«Ma di veramente utile cosa avete?»

«L'ha visto anche lei, no? La sua collezione di Miss Mostrami-la-patatina, la pianta della città, i giornali, i ritagli, l'elenco. Ah, sì, e un resto di spaghetti 05.»

«Nient'altro?»

«Nient'altro.»

«Nessun articolo da bagno? Prodotti di drogheria?»

«Nada.»

Riflettei un istante.

«Non sembrava che ci vivesse qualcuno, in quell'appartamento.»

«Be', se ci viveva è il figlio di puttana più lercio che conosca. Uno che non si lava i denti e non si fa la barba. Non c'era sapone. Niente shampoo. Niente filo interdentale.»

«Lei come lo interpreta?»

«Forse lo usa come base per le sue attività criminali e per le sue porno-manie. Forse mammina non apprezza i suoi gusti artistici. Forse non gli permette di farsi le seghe in casa. Come faccio a saperlo?»

«Che cosa mi dice dell'elenco?»

«Stiamo verificando i nomi e gli indirizzi.»

«Qualcuno sul Saint-Lambert?»

Pausa.

«No.»

«Si sa qualcosa di come sia entrato in possesso della carta di credito di Margaret Adkins?»

Questa volta la pausa fu particolarmente lunga e l'ostilità palpabile.

«Dottoressa Brennan, perché non si limita alle attività di sua competenza e lascia a noi il compito di catturare l'assassino?»

«Allora è d'accordo con me?» Non ero riuscita a trattenermi.

«D'accordo su cosa?»

«Sul fatto che è un assassino?»

Mi rispose il segnale di libero.

 

Passai il resto della mattinata cercando di stimare l'età, il sesso e l'altezza di uno scheletro sulla base di una singola ulna. L'osso era stato ritrovato da alcuni bambini che per gioco scavavano vicino a Pointe-aux-Trembles, e probabilmente proveniva da un vecchio cimitero.

Alle dodici e un quarto salii a prendere una Diet Coke. Tornai in ufficio, chiusi la porta e tirai fuori il mio pranzo: un sandwich e una pesca. Rivolsi la sedia verso il fiume e cercai di pensare a qualcosa di piacevole. Naturalmente mi ritrovai a rimuginare su Claudel.

Continuava a rifiutare l'ipotesi del serial killer. Aveva ragione? Era davvero possibile che tutte quelle analogie fossero semplici coincidenze? O addirittura ero io che inventavo associazioni inesistenti? Magari Saint-Jacques era solo un individuo morboso interessato a ogni forma di violenza. Perché no? In fondo produttori cinematografici ed editori guadagnano miliardi soddisfacendo curiosità molto simili. Forse non era un assassino ma uno che si divertiva a tenere il conto degli omicidi più brutali, o un voyeur che pedinava le donne. La carta di credito di Margaret Adkins poteva averla trovata per caso. Forse gliel'aveva rubata prima che morisse e lei non se n'era accorta. Forse. Forse. Forse.

No. No. Qualcosa continuava a non quadrare anche per me. Se non era Saint-Jacques, doveva essere qualcun altro: un qualcun altro responsabile di molti omicidi. Ero sicura che alcuni delitti fossero collegati, e non intendevo aspettare che un altro corpo massacrato dimostrasse che avevo ragione.

Ma cosa potevo fare per convincere Claudel che non ero solo una stupida dotata di fervida immaginazione? Il fatto che avessi invaso il suo territorio lo urtava profondamente. Addirittura pensava che volessi scavalcarlo, e mi aveva intimato di limitarmi alle attività di mia competenza. E Ryan. Che cosa mi aveva detto lui? Buchi. Che non gli bastava. Di trovare indizi più convincenti.

«D'accordo, Claudel, brutto stronzo, farò esattamente quello che mi hai detto: mi limiterò alle attività di mia competenza.»

Pronunciai quella frase a voce alta, facendo scattare lo schienale in posizione eretta e gettando il nocciolo della pesca nel cestino.

Bene.

E quali sono le mie competenze?

Dissotterrare corpi. Esaminare ossa.

 

13

 

Mi trovavo al Laboratorio di Istologia, in attesa dei casi 25906-93 e 26704-94. Mentre aspettavo liberai il tavolo a destra del microscopio e mi procurai una penna e un supporto rigido con qualche foglio, quindi presi due tubetti di vinil-polisiloxano e li deposi vicino a un blocchetto di carta speciale insieme a una spatola e a un calibro digitale preciso al millesimo di millimetro.

Denis tornò con due scatole di cartone, sigillate ed etichettate con cura, che posò a un'estremità del tavolo. Dalla scatola più grande estrassi alcuni segmenti dello scheletro di Isabelle Gagnon e li adagiai sulla metà destra del piano di lavoro.

L'altra scatola conteneva campioni del cadavere di Chantale Trottier. Prima di restituire il corpo alla famiglia per il funerale avevamo prelevato alcuni segmenti ossei, come previsto dalla procedura per i casi di omicidio con mutilazioni o ferite che interessano lo scheletro.

Estrassi sedici buste di plastica con cerniera e le depositai sulla sinistra del piano di lavoro. Su ciascuna erano indicati la parte e il lato del corpo da cui proveniva il relativo segmento. Polso destro. Polso sinistro. Ginocchio destro. Ginocchio sinistro. Vertebra cervicale. Vertebra toracica e lombare. Svuotai tutte le buste e ne disposi il contenuto in ordine anatomico. Posizionai i due segmenti femorali vicino a perone e tibia per formare l'articolazione del ginocchio. Quella del polso era costituita da circa quindici centimetri di radio e di ulna. I segni lasciati sulle ossa dall'autopsia erano chiaramente riconoscibili, quindi non correvo il rischio di confonderli con la firma dell'assassino.

Sul primo foglio di carta speciale spremetti un ricciolo di pasta azzurra per le impronte dentarie e, accanto, uno di pasta bianca. Con la spatola miscelai rapidamente la base bianca e l'attivatore azzurro fino a ottenere un composto omogeneo che inserii in una siringa di plastica. A quel punto scelsi uno dei resti del braccio di Chantale Trottier e ricoprii l'estremità dell'osso che si inserisce nell'articolazione.

Dopodiché pulii spatola e siringa, strappai il foglio già utilizzato e ripetei l'intera procedura con tutti gli altri segmenti. A mano a mano che i calchi si indurivano li staccavo dall'osso, li segnavo con il numero del caso, la posizione anatomica, il lato e la data, e li collocavo accanto alla relativa matrice. Dopo circa due ore ogni segmento aveva accanto il suo calco azzurro.

Mi spostai al microscopio. Dopo aver impostato l'ingrandimento e regolato la luce della fibra ottica procedetti a un meticoloso esame di tutte le piccole tacche e graffiature che avevo appena evidenziato. Partii dal femore destro di Isabelle Gagnon.

Quel primo esame sembrò rivelare due tipi di segni. Le ossa del braccio presentavano sull'estremità dell'articolazione una serie di solchi a U paralleli fra loro caratterizzati da un fondo intersecato ad angolo retto da due pareti. Questi tagli misuravano quasi sempre sei millimetri circa di lunghezza e poco più di un millimetro di profondità. Sulle ossa lunghe delle gambe rilevai scanalature simili.

I segni del secondo tipo erano a forma di V e più stretti rispetto ai solchi a U in quanto pareti e fondo non si incontravano ad angolo retto. I tagli a V comparivano isolati sugli acetaboli e sulle vertebre mentre verso le estremità delle ossa lunghe erano disposti parallelamente ai solchi a U.

Riportai in un diagramma la posizione di ciascun segno e ne registrai lunghezza, profondità e, nel caso dei solchi a U, ampiezza. Quindi passai a osservare al microscopio i solchi a U e i calchi relativi, dall'alto e lateralmente. I calchi possono essere considerati una sorta di negativo tridimensionale che riproduce, al contrario, tutte le minuscole protuberanze, le scanalature e i graffi presenti sulle superfici del taglio. L'analisi del calco mi avrebbe permesso di cogliere quei particolari impossibili da rilevare tramite un esame diretto del taglio stesso.

Poiché braccia e gambe erano state disarticolate, e non segate, tutte le ossa lunghe erano rimaste intere. Facevano eccezione le ossa degli avambracci, mozzate appena sopra i polsi. L'osservazione delle estremità tagliate di netto del radio e dell'ulna rivelò la presenza di spuntoni da spezzamento. Ne presi nota e registrai la loro posizione, quindi analizzai la sezione laterale di ogni taglio. Con quell'ultima operazione il caso Gagnon era concluso e mi accinsi a ripetere l'intera procedura su Chantale Trottier.

Ero talmente assorbita in quel lavoro che a stento udii l'offerta di Denis di cominciare a rimetter via parte del materiale. E non mi accorsi neppure che nel frattempo in laboratorio era calato il silenzio.

«Che cosa ci fa ancora qui?»

La vertebra che stavo togliendo dal microscopio per poco non mi cadde di mano.

«Cristo santo, Ryan! Mi ha fatta spaventare!»

«Ehi, non si agiti così. Ho solo visto la luce accesa e ho pensato di fare un salto a vedere se Denis stava facendo gli straordinari affettando qualcosa di interessante.»

«Che ore sono?» domandai, raccogliendo le altre vertebre cervicali per riporle nella loro scatola.

Andrew Ryan consultò l'orologio. «Le cinque e quaranta.» Poi mi osservò sistemare le buste nella scatola più piccola e richiudere il coperchio.

«Allora, ha scoperto qualcosa di utile?»

«Direi di sì.»

Mi assicurai che il coperchio tenesse bene, quindi riposi le ossa del bacino di Isabelle Gagnon.

«Pare che Claudel non creda molto in queste analisi dei tagli.»

Era esattamente la cosa che non avrebbe dovuto dire, ma non mi scomposi e continuai a fare ordine.

«Per lui una sega è solo una cosa che taglia, niente di più.»

«E lei, che ne pensa?»

«Veramente io non me ne intendo.»

«Suvvia, avrà pur fatto qualche piccolo lavoro in casa.»

«Be', so che si usano per tagliare varie cose.»

«Bene. Quali cose, per esempio?»

«Legno, rami, metallo...» Fece una pausa. «Ossa.»

«E come tagliano?»

«Come?»

«Sì, in che modo?»

Rifletté qualche secondo. «Con i denti. I denti vanno avanti e indietro e tagliano il materiale.»

«E le seghe circolari?»

«Be', quelle hanno la lama che gira.»

«Ma come penetrano? Come un coltello o come uno scalpello?»

«Che cosa intende?»

«I margini dei denti sono affilati oppure piatti? Tagliano il materiale oppure lo lacerano?»

«Oh....»

«E lo tagliano quando vanno avanti o quando tornano indietro?»

«Non capisco, dove vuole arrivare?»

«Lei ha detto che i denti vanno avanti e indietro. Giusto. Ma in quale momento il materiale viene effettivamente tagliato? Quando vanno avanti o quando tornano indietro? Quando si spinge o quando si tira?»

«Ah, ecco...»

«I denti sono fatti per procedere lungo la venatura o contro la venatura?»

«È importante?»

«Quale distanza c'è fra un dente e l'altro? E la spaziatura è uniforme? Quanti sono i denti sulla lama? Che forma hanno? Qual è l'inclinazione antero-posteriore? I margini sono appuntiti oppure ad angolo retto? Come sono posizionati rispetto al piano della lama? Che tipo di...»

«Va bene, va bene... ho capito. Sono pronto ad ascoltarla. Le cedo la parola.»

Nel frattempo avevo terminato di mettere le ossa di Isabelle Gagnon nella scatola e avevo chiuso il coperchio.

«Esistono centinaia di seghe diverse. Seghe da tronchi, seghe trasversali, saracchi, seghetti, seghetti da ferro, seghe per serrature, seghe per carne, seghe Ryobi e Gigli, seghe per osso e metacarpali. E queste sono solo quelle manuali, cioè quelle attivate dalla forza muscolare. Fra quelle che invece sono alimentate a energia elettrica o a scoppio, alcune si muovono con movimento alternato, altre con movimento continuo. Alcune vanno avanti e indietro e altre invece girano. Inoltre, ogni sega è concepita per agire su un materiale specifico e quindi mentre taglia produce effetti diversi. Comunque, per limitarci a quelle manuali, cioè a quelle che ci interessano in questo caso, possiamo dire che le differenze riguardano essenzialmente le dimensioni della lama e le caratteristiche dei denti: misura, passo e inclinazione.»